(foto Ansa)

Uffa!

Che nostalgia per quegli italocomunisti lontani anni luce dalla decrescita felice

Giampiero Mughini

L'Italia e la sinistra in un libro di rara goduria. Quello di Giovanni Sallusti che prende a sonori ceffoni la cultura del woke e del "gretinismo" ambientale

Emanuele Macaluso, Alfredo Reichlin, Gerardo Chiaromonte, Antonello Trombadori, Giorgio Napolitano, Miriam Mafai, Paolo Bufalini, e dannazione che io non abbia mai incontrato Luciano Lama, quel capintesta della Cgil che un’orda del Settantasette romano costrinse a ritrarsi dal piazzale dell’Università La Sapienza, una delle più antiche del mondo. Eccome se non ho nostalgia degli italocomunisti di un tempo, i quali non erano affatto personaggi tutti d’un pezzo e invece protagonisti dalle infinite striature intellettuali. Coltissimi, addestrati a tutte le leggi della lotta politica la più impervia perché fatta di cose reali, assuefatti a puntare il loro mirino sulle mosse delle classi da cui veniva la ricchezza possibile del nostro paese, a cominciare dalla classe operaia e dalla relativa borghesia imprenditrice. Ecco perché quando dalla buca delle lettere di casa mia ho ritirato il libro inviatomi dalla preziosa casa editrice maceratese Liberilibri, Mi mancano i vecchi comunisti di Giovanni Sallusti – reso ancor più piccante dall’introduzione di Giuliano Ferrara anticipata su questo giornale – ci ho messo il tempo necessario a percorrere i pochi metri che separano l’ingresso di casa mia dalla chaise longue dove passo la gran parte del tempo che dedico alla lettura, e subito ho cominciato a leggere.

Vedo che il quarantenne Sallusti, nipote del più famoso Alessandro che dirige il Giornale, uno che si autodefinisce “uno spelacchiato liberale-libertario” sopravvissuto ai roghi di tutte le ideologie, è divenuto adesso il capintesta della emittente radiofonica della Lega che corrisponde alla fatidica Radio Padania di un tempo. Gli faccio i miei auguri, anche se non ce lo vedo nei panni di uno che per professione deve dar voce a una parte dello schieramento politico. Oppure sono io che sbaglio, e nella Lega di oggi c’è posto anche per un tipino coi controfiocchi com’è Sallusti. Sarebbe tanto di guadagnato per la zoppicante democrazia italiana. Il suo libro difatti scorre via come le acque  del fiume, da quanto l’autore vi si muove con gran scioltezza intellettuale tanto nell’assunto di fondo quanto nei singoli giudizi. Ad esempio lì dove Sallusti scrive del filosofo cattolico Augusto Del Noce che è stato un “gigante del pensiero” e che il suo “corpo a corpo con il marxismo” è stato uno degli episodi rilevanti della nostra recente storia culturale.

Oppure lì dove trafigge il leader dei Cinque stelle, l’avvocato Giuseppe Conte, dicendo che è il sovrano assoluto della cultura politica che fa dell’“assistenza” come forma di governo il suo cavallo di battaglia, pur di trarne i numeri del consenso elettorale col promettere a chicchessia ora questo e ora quello. Al quale baratto Sallusti contrappone il Lama che in una celebre intervista al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, pronunciava l’indimenticabile sentenza “Non vogliamo trasformare il lavoro produttivo in assistenza”. Roba che a sentirla adesso, suonerebbe come una bestemmia. “Sì i Lama stanno ancora in Tibet, purtroppo”, annota Sallusti: quella di Conte, leggiamo nel suo libro, “è la retorica senza quartiere contro stipendi dei politici e numero dei parlamentari, senza che l’autentico corpaccione dello statalismo (burocrazie, prebende pubbliche, sussidi a pioggia) sia stato intaccato, è anche il suo intimo e sgangherato complottismo” . E’ anche la piattaforma con cui Elly Schlein assicura di voler costituire il ‘campo largo’ dei nuovi progressisti [...] è il pensionamento definitivo del Partito-Principe a favore dell’apoliticismo movimentista, moralista e settario. Antonio, dove sei?”. Vi raccomando leggetelo questo pamphlet, è di rara goduria.

Ma dove il libro di Sallusti fa data è nel prendere a sonori ceffoni la cultura purtroppo oggi talmente diffusa nei meandri della sinistra sentimentale, la cultura del woke, dello schleinismo, del “gretinismo” ambientale, della “decrescita felice”, delle chiacchiere a vuoto sul come dovremmo essere tutti più buoni e più ecologici. Una cultura che si estenua nel decantare i fasti della “Società Perfetta”, cioè di qualcosa che non esiste e che non esisterà mai. Una cultura cui l’agguerrito Sallusti contrappone un superbo elogio del realismo politico di Palmiro Togliatti – di uno che c’era cresciutò lì in mezzo alle tragedie e agli orrori politici del Novecento  – il quale, benché abbattuto dai quattro colpi di pistola che gli ha sparato a bruciapelo uno scervellato ragazzaccio catanese di estrema destra, non la finisce di sussurrare a chi lo sta assistendo sul letto d’ospedale: “Calma! Calma!”. Ed evita così d’un pelo la resurrezione della guerra civile tra italiani. O magari del Togliatti al quale Giancarlo Pajetta telefona tutto felice di avere occupato un palazzo milanese del Potere e al quale lui risponde secco: “E adesso che ve ne fate?”. Musica per le mie orecchie.

Com’è musica per le mie orecchie un altro comparto del libro. Lì dove Sallusti scrive che col denigrarli quali “evasori” un giorno sì e l’altro pure (lo fa ogni volta che apre bocca il successore di Lama alla testa della Cgil, Maurizio Landini) l’odierna sinistra ha come perso di vista “i combattenti quotidiani nella trincea dell’economia reale”, e questo suo riferimento lo voglio prendere quale un elogio del lavoro di noi partite Iva, un lavoro dove conta al cento per cento la qualità del prodotto professionale che sì o no sei in grado di offrire, dove crei ogni volta un incasso ulteriore per lo stato (l’Iva per l’appunto), un lavoro che ti viene pagato a tre o quattro mesi e su cui paghi il 50 per cento di tasse. Sì, confesso che sono solito pensare che il mio lavoro da partita Iva è la cosa più di sinistra che faccio nella mia vita reale.

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