Mussolini tiene un discorso a Guidonia nel 1937 (Wikimedia Commons) 

uffa!

"Il caso Mussolini" e le due grandi bugie che portarono all'ascesa del fascismo

Giampiero Mughini

Maurizio Serra, ex ambasciatore italiano all’Unesco e membro dell’Académie Française, maneggia con acume la letteratura afferente al "mussolinismo" nel suo nuovo libro. E torna sulle due mistificazioni alla base del regime

Per essere un uomo politico che ci teneva a che la sua postura fisica risultasse suggestionante, Benito Mussolini era alto soltanto un metro e 68, seppure in un’epoca in cui quella era la statura media degli italiani. Tutta la vita osservò una dieta rigorosissima, perché l’ulcera gastroduodenale di cui soffriva fin da giovane gli procurava sofferenze anche lancinanti. Aveva in comune con Winston Churchill e con Charles de Gaulle il fatto di stendere e curare interamente da sé e sino all’ultimo dettaglio ogni suo articolo o messaggio. Non permise mai a Galeazzo Ciano di dargli del tu e di mettersi seduto quando gli stava innanzi. Ai tempi del suo fulgore politico amava collezionare gli originali delle vignette sfottitorie che gli erano dedicate, una collezione di cui non si è saputo più nulla, probabilmente a causa di un qualche saccheggio in una delle dimore da lui abitate. In questo suo recentissimo “Il caso Mussolini” (Neri Pozza, 2021), Maurizio Serra, l’ex ambasciatore italiano all’Unesco e membro dell’Académie Française che non per caso aveva dedicato a Renzo De Felice un suo libro di alcuni anni fa, maneggia con elegante acume la copiosa letteratura afferente al “mussolinismo”, termine il più atto a connotare quel drammatico ventennio durante il quale la società italiana non si mise affatto la mascherina nel vivere dentro alla pandemia fascista. Altro che la “parentesi” di cui scrisse Benedetto Croce nel tentare di liberarsi senza affanno di tutte le implicazioni di un tale macigno storiografico. 

Mussolini aveva 39 anni alla mattina del 30 ottobre 1922, quando il sovrano d’Italia gli affidò la guida del governo. Né lui si mise i guanti bianchi nell’acciuffare il potere politico. Al suo debutto oratorio a Montecitorio, il 16 novembre, si rivolse ai parlamentari dicendo che era dovuto solo al suo buon volere se la Camera dei deputati non era stata trasformata in “un bivacco” per i 120 mila uomini in camicia nera che erano venuti giù da tutta Italia. A evitare l’eventualità che a un qualche altro e siffatto scavezzacollo venisse un giorno affidato il comando politico, Serra ricorda che la Costituzione italiana promulgata nel 1947 vieta espressamente che il capo del governo repubblicano sia un uomo che non abbia ancora compiuto cinquant’anni. Beninteso, non che ci sia la più larvata possibilità che qualcosa di vicino al fascismo ricompaia sulla prima linea della politica italiana. Il fascismo (o piuttosto il mussolinismo) è morto e stramorto nell’aprile 1945, quando lo hanno sepolto nel disonore. Solo degli imbecilli patentati provano oggi a usare lo stesso termine nel connotare il trentanovenne del 1922 e magari la Giorgia Meloni del 2021, separati invece come sono da abissi di storia politica e trasformazioni sociali delle società occidentali. Laddove “il caso Mussolini” continua eccome a meritare dei libri che ci dicano qualcosa sull’identità italiana e sulla storia di cui siamo figli. I due tomi del racconto di Antonio Scurati li ho conservati nel comparto della mia biblioteca riservato alla narrativa italiana. Nel comparto riservato alla saggistica italiana, il libro di Serra andrà ad affiancarsi agli altri (bei) libri di questo intellettuale italiano su tutti aideologico.

 

“Il fascismo non è nato per reagire alla fragilità della società italiana dopo il 1918, come ha preteso; bensì per servirsene e sfruttarla sino in fondo”. Questo giudizio di Serra è il perno intellettuale su cui ruota il suo libro. All’origine dell’avvento del fascismo ci sono due grandi bugie, di cui Mussolini si avvalse alla grande fino a renderle credibili al sentir comune del suo tempo, persino a un certo Luigi Pirandello che si iscrisse al Partito nazionale fascista pur dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. La bugia che fosse imminente il pericolo di una vittoria del bolscevismo in Italia, laddove Giovanni Giolitti aveva spento magistralmente la miccia accesa nel 1920  dalle occupazioni operaie delle grandi fabbriche del nord; la bugia che la vittoria italiana costata 600 mila morti fosse stata “mutilata” dai calcoli politicanti dei nostri Alleati, laddove gli accordi del 1919 ci offrivano la grandissima parte dei territori irredenti cui ambivamo all’atto di entrare in guerra, il Trentino e l’Alto Adige, Trieste, l’Istria e la Dalmazia occidentale con le sue isole. 

Il comando che il re gli aveva affidato nel 1922, Mussolini seppe trasformarlo in pochi anni in un potere illimitato. Il 3 gennaio del 1925 diede una sonante lezione politica agli “aventiniani” che, a seguito del martirio di Matteotti, avevano creduto di sommergerlo politicamente col solo fatto del loro sprezzo. Al momento buono Mussolini trasse dalla sua parte il Vaticano, tanto da diventare “l’uomo della provvidenza” agli occhi del Papa. Nei primi dieci anni del suo governo riscosse ammirazione un po’ dappertutto in Europa, fra gli altri da un politico del rango di Winston Churchill. Dopo che riuscimmo in Etiopia a portare alla vittoria il nostro colonialismo da straccioni, si fece autocelebrare quale maresciallo d’Italia né più né meno che re Vittorio Emanuele. Le prime delle 14 volte che incontrò Adolf Hitler lo guardava dall’alto in basso. Più tardi, quando Hitler s’era guadagnato in poche settimane la supremazia la più spietata sull’Europa continentale ci rimase male quando vide che i nostri soldati non vincevano una sola battaglia in Africa settentrionale o in Grecia. Lui che nei suoi trent’anni era stato un magnifico giornalista, chiamò “bagnasciuga” la “battigia” siciliana su cui il 9 luglio 1943 i soldati alleati irruppero quasi senza colpo ferire. La sua agonia politica fu la più umiliante. Fino al momento, alla maniera di una “macelleria messicana”, in cui un manipolo di accesi partigiani comunisti lo scaraventò contro il muro di una villa dalle parti di Como a uccidere lui e la sua giovane amante.

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