La sede della Cgil a Roma dopo l'assalto di sabato (Ansa) 

uffa!

Furia iconoclasta tanta, fascismo storico niente. Note sull'irruzione alla Cgil

Giampiero Mughini

I fatti di sabato a Roma sono gravi ma non seri: rivelano che le società industrializzate del terzo millennio covano nel loro seno delle minoranze disposte a tutto in fatto di rabbia diffusa, di ribellismo a poco prezzo e a tanto chiasso. Ieri i “gilet gialli”, oggi i “No vax”,  e domani?

Se quelli della masnada turbolenta che sabato scorso a Roma ha fatto irruzione nella sede della Cgil a sfrantumarne gli arredi, e questo dopo avere aggredito e percosso gli agenti che la proteggevano e scassato le finestre, rievocano e marcano una loro identità “fascista”? Ma no, erano piuttosto delle sconce macchiette, degli esemplari di una sottospecie umana. A sentire che vengono rapportati al “fascismo” storico, Benito Mussolini, Dino Grandi e Giuseppe Bottai si staranno rivoltando nella tomba. Il fascismo fu una cosa atrocemente seria, in un tempo in cui l’Europa tutta usciva da anni in cui i ventenni armati di baionette erano andati le mille volte all’assalto di postazioni difese dalle mitragliatrici e in cui la democrazia pluripartitica non ce la faceva più a fronteggiare questo subbuglio delle anime e delle idee. Laddove gli eventi romani di sabato scorso sono gravi sì, ma non altrettanto seri. Se non per il fatto che rivelano che le società industrializzate del terzo millennio covino nel loro seno delle minoranze disposte a tutto in fatto di rabbia diffusa, di ribellismo a poco prezzo e a tanto chiasso. Ieri i “gilet gialli”, oggi i “No vax”, domani non so. Furia iconoclasta tanta, “fascismo storico” niente. 

Di certo il fatto che sia stata violata l’esistenza materiale e simbolica di quella che è stata la sede storicamente più importante della Cgil è un fatto cui uno della mia generazione non può assistere senza una fitta al cuore. E per quanto il mondo sia cambiato, a quella sede restano associati i nomi di figure gigantesche della nostra vita pubblica, Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama, Vittorio Foa, Bruno Trentin. Ovvio che ai giorni nostri la categoria professionale la più assiduamente rappresentata dalla Cgil non sono più gli operai di Mirafiori, quelli delle grandi concentrazioni industriali che avevano fatto da molla del “boom” economico e dunque della redistribuzione del reddito reclamata dalle lotte operaie dei primi Sessanta, bensì i pensionati. Di certo la marea operaia rappresentata dalla Cgil (e tanto più ai tempi di una comunella con la Uil e la Cisl) era ai nostri occhi tutt’altra cosa che non i bolscevichi e i soldati russi che non ne volevano sapere di continuare a morire durante le carneficine della Prima Guerra Mondiale, ossia i protagonisti del colpo di mano dell’Ottobre russo del 1917 da cui discenderanno tutte le tragedie del Novecento.

Quando arrivai a Roma nel gennaio 1970 e negli anni immediatamente successivi, convinto com’ero che fossero solo puttanate l’agitarsi di quel gruppuscolame fra operaista e marxista leninista da cui sarebbe sbocciato il terrorismo rosso dei Settanta, subito mi aggrappai con le unghie e i denti all’entità simbolica del sindacalismo di punta. Cercai disperatamente Vittorio Foa, un maestro della mia generazione. Andai a casa sua a piedi, perché non avevo i soldi di che pagarmi un bus. Vittorio e sua moglie Lisa sono stati fra gli amici per eccellenza della mia vita. Per tramite dei Foa avevo conosciuto Sergio Garavini e sua moglie Sesa. Ricordo come se fosse ieri una cena a casa dei Garavini con Vittorio, Lisa e Rossana Rossanda. I casi della vita hanno voluto che quando si spezzò il matrimonio tra Vittorio e Lisa, e nel frattempo si fosse spezzato quello tra Sergio e Sesa, nacque un rapporto sentimentale tra Vittorio e Sesa e durò fino alla sua morte. Se ricordo bene l’ultima volta che sono stato alla Cgil di Corso d’Italia è stato in occasione della morte di Vittorio, nell’ottobre 2008, e quella volta mi venne incontro la figlia di Sesa e di Sergio Garavini, che era la moglie di Guido Viale al tempo in cui lui era un leader di spicco della Lotta continua torinese. Lei s’era rifugiata ed era rimasta ospite a casa mia quando la polizia la ricercava dopo una delle buriane torinesi di Lotta continua; dormiva in un letto che avevamo apprestato alla buona nel soggiorno della casa di via della Trinità dei Pellegrini. Me ne sono ricordato quando Guido Viale e la buona parte dei dirigenti storici di Lotta continua mi hanno bersagliato di insulti quando avevo scritto che non c’era dubbio che fosse stato un commando di Lotta continua a uccidere il commissario Guido Calabresi. Ciò che la grandissima parte di quei ottocento babbei che avevano firmato il famoso manifesto in cui denunciavano Calabresi quale un assassino e un torturatore non hanno mai avuto il coraggio di pronunciare.

La famiglia Foa e la famiglia Garavini erano e restano fra le frequentazioni sacre della mia vita,  seppure i nostri rapporti si fossero interrotti a causa della mia deriva “revisionista” della prima metà dei Settanta. Mai un solo minuto avevo smesso di venerare Vittorio e Sergio per quel che erano stati nel movimento sindacale italiano e nella vita pubblica degli anni Settanta del nostro paese, semmai ero allibito che l’uno e l’altro farfugliassero politica a vantaggio di gruppi minimali dell’estrema sinistra che non valevano un’oncia di quel che era stata la Cgil degli anni aurei. 

Nel gennaio 1980, a poche ore dalla morte di Pietro Nenni, Mario Pirani – mio direttore all’Europeo – mi chiese di intervistare Foa, che di Nenni era stato avversario frontale ai tempi del primo centrosinistra. Di più, lui e la sinistra lombardiana avevano intralciato la nascita del centrosinistra e aggravato la debolezza del Psi nel confronto politico con la Democrazia cristiana. Vittorio mi disse al telefono che non aveva intenzione di rilasciarmi quell’intervista. Pirani lo chiamò e insistette perché lo facesse. A quel punto Foa accettò di ricevermi. Fece un’intervista sontuosa in cui diceva che nella storia politica italiana era Pietro Nenni che aveva vinto, e non Palmiro Togliatti. Dopo quel nostro colloquio mai più l’ho visto e sentito.

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