Il SESC Pompeia, uno delle costruzione più importanti costruite da Lina Bo Bardi a San Paolo (Foto via Wikipedia)

Le avventure di Lina Bo

Michele Masneri

I viaggi dell'architetta romana che fuggiva dal culto dell'antico 

"Sono sfuggita dalle rovine dell’antichità recuperate dai fascisti”: sarebbe un bel viatico o statement per tutti quelli che anche oggi se ne andrebbero volentieri da Roma a Milano (però oggi col Frecciarossa, metropolitana d’Italia). Lina Bo, poi Bardi, architetta romana, dal quartiere Prati, liceo artistico a via di Ripetta, aveva scelto come tanti giovani Milano: oggi si va soprattutto per diventare influencer, allora lei aveva scelto “per fare pratica” di lavorare da Giò Ponti. “Mi disse subito: io non ti pagherò, sei tu che dovresti pagare me”, scrive nel suo “curriculum letterario” che accompagna l’unico suo scritto, una monografia a introduzione del suo corso di architettura all’università di San Salvador de Bahia. “So scrivere bene, certo che so scrivere bene. I miei maestri sono Stendhal e Majakovskij. Il primo mi ha insegnato la concisione, il secondo il ritmo e la fantasia del reale”.

 

Ma prima, “Lina Bo” era partita da Roma, da un papà monarchico-anarchico, e da quella città e da quegli studi che privilegiavano il passato (dirà: lì il museo viene spesso confuso col mausoleo, e si studiano solo i monumenti antichi). Farà una tesi di laurea già provocatoria dal titolo, “maternità per madri nubili” di fronte a un esterrefatto Marcello Piacentini presidente di commissione. A Milano, rimane sotto le bombe tipo Windsor per difendere lo studio d’architetta. Si rifugia a Bergamo, dove viene trasferita a gestire il governo in esilio della rivista Domus, che a soli 25 anni è chiamata a dirigere.

 

Nel ’45 sposa in Campidoglio Pietro Maria Bardi, per lei “il maggior giornalista italiano”, difensore del modernismo, amico e poi nemico di Mussolini. Nel ’46, constatando che dopo la Guerra arriva la Democrazia cristiana e “tutto ciò che pensavamo sconfitto prese il potere”, i due partono per il Brasile. Al marito viene proposto di dirigere il museo d’arte di San Paolo. Da Napoli si imbarcano sul piroscafo “Almirante Jaceguay” e arrivano a Rio.

 

Per Lina Bo, ora finalmente anche Bardi, è una folgorazione, anzi un “deslumbramento”, un “abbagliamento”, per “la semplicità intelligente, un paese immaginifico, che non ha una classe media ma solo due grandi aristocrazie, quella della terra e quella del popolo”. “Quello che ho fatto in Brasile non lo avrei potuto costruire in Europa. Per questo sono brasiliana”, dice la Bardi deslumbrada da un paese con un’architettura “che non ha diecimila anni ma dieci, dove costruire è necessario, e l’architetto brasiliano è un ragazzo chiamato alle armi all’improvviso”. “Le città brasiliane rivelano un’umanità che vuole sistemarsi rapidamente, guadagnare tempo: un’umanità che lavora”, dirà, un po’ milanese e un po’ brasiliana. “Il popolo qui non conosce cattivo gusto. Chi glielo inculcherà artificialmente commetterà il peggiore dei delitti”. Lei vorrebbe stare a Rio (poi andrà a Bahia) ma “a San Paolo ci sono i soldi”. 

 

Lina Bo e Pietro Maria Bardi al loro arrivo a San Paolo del Brasile, 1947 


 

San Paolo è una Milano brasiliana ancor oggi (e i carioca: ma che ci vai a fare, è tutto cemento. Mentre i paulisti: ah Rio, troppi turisti, solo borseggiatori). In Brasile fa di tutto, seguendo la strada del suo maestro Giò Ponti: disegna gioielli, scenografie (un’Opera da tre soldi a Salvador de Bahia, un Caligola di Camus che va a inaugurarla), mobili poi celeberrimi: “cercammo per mesi una sedia moderna a San Paolo. Non ne esistevano. Dovemmo disegnarla noi”. Sfilate; il museo d’arte di San Paolo è il primo al mondo a ospitare una passerella (di Christian Dior, nel ’51, c’è una foto dei Bardi con le modelle). Disegna e fonda giornali, “A” con Bruno Zevi, “Habitat” col marito, e dissemina il Brasile di case ma soprattutto edifici pubblici (le sue abitazioni le disegnava solo per gli amici stretti, “non farò certo delle villette per delle madamine che poi mi chiedono che tende o che comò metterci”).

 

Eccezioni: la sua casa di vetro ora monumento nazionale e la villetta per l’amica Valeria Cirell con intonaci “pixelati” e piscina “organica” e “architettura povera, non nel senso di indigente ma artigianale, che esprime la maggior comunicazione e dignità attraverso i mezzi più limitati e umili”. A San Paolo, il rosso Museo d’arte moderna (che non voleva grandioso ma “dotato di dignità civica”) e soprattutto il commovente Sesc Fabrica de Pompeia, centro sociale che comprende piscine, palestre, ristoranti: una ex fabbrica di bidoni ristrutturata con uso aereo del cemento armato insieme ai dettagli che ci fanno amare la Lina (l’uso romantico dei sassi, le caditoie come piccole piscine).

 

Vasti locali lasciati com’erano, una biblioteca con palchetti rialzati e paratie di cemento sottile come un ricordo di tortellino di Bottura, dove oggi giovani hipster giocano a scacchi con anziani; il teatro, con seggioline programmatiche-punitive; e i due corpaccioni di cemento armato (sempre lui): quello della piscina e quello della palestra, entrambi necessari per una società che tiene tantissimo al fitness. Un cubone con finitura australe e tanti “occhi” asimmetrici che garantiscono ventilazione (Bo Bardi odiava l’aria condizionata, e si capisce anche nella pur bellissima biblioteca dove si crepa di caldo); e tanti ponti sospesi (e una torre-ciminiera per il riscaldamento). Il tutto sembra il dietro della stazione Termini con la torre-serbatoio d’Angiolo Mazzoni (un altro che era emigrato in America del Sud, ma lui operava soprattutto in Colombia, cacciato in quanto massima archistar fascista del ramo ferroviario-postale, autore di tanti uffici sublimi come quello di Sabaudia).

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