tv di stato

Ultimo tango alla Rai. Tra Sergio e Rossi, Chiocci ci cova

Salvatore Merlo

Rivalità e lotte sui giornali: chi sarà il prossimo ad della televisione pubblica? Il derby tra le fazioni del direttore generale e dell'amministratore delegato è ormai evidente

E’ iniziata la guerra nella Rai? L’amministratore delegato, l’ex democristiano Roberto Sergio, contro il direttore generale meloniano Giampaolo Rossi? E chi lo sa. Entrambi smentiscono, e sanno anche essere convincenti, ma dentro l’azienda, nel cda e pure in Parlamento non si parla d’altro. Ovvero di due fazioni e due partiti dentro il palazzone di viale Mazzini. Sarebbe bastato, lunedì sera, osservare chi andava alla presentazione del libro di Angelo Mellone, direttore del Day time Rai e una vita da intellettuale di destra, e chi invece quasi allo stesso orario ma in un altro luogo della capitale è andato alla presentazione del film di Roberto D’Agostino, per avere quasi conferma – come si suol dire: plastica – di questa sensazione. Com’è noto questi piccoli grandi eventi di presenzialismo romano “parlano”. E allora da una parte, quella di Mellone, ecco la Rai degli arditi meloniani, diciamo, i direttori e i capistruttura del dg Rossi. Tutti. Mentre da D’Agostino ecco l’eternità del potere Rai, l’altro spicchio dell’azienda, quello che sostiene l’ad Sergio, all’incirca da Mario Orfeo a Paolo Del Brocco, nomi quasi sconosciuti al grande pubblico, eppure importantissimi.

Gli eterni, anzi gli highlander: gli immortali. Basti pensare che Del Brocco, per dire, è l’uomo che da quasi vent’anni sovvenziona praticamente tutto il cinema italiano con Rai Cinema. Qual è la storia? Sergio forse vorrebbe essere riconfermato, a giugno, malgrado quel posto sia stato promesso a Rossi. E tra i due litiganti c’è un terzo che forse gode. Ma andiamo per gradi. Sullo sfondo di questo conflitto, vero, verosimile o fasullo che sia, c’è la crisi dell’azienda, che precede sia Sergio sia Rossi, una crisi industriale serissima che fa oggi della Rai, 12.700 dipendenti, 300 dirigenti e 2.058 giornalisti, un caso a metà tra l’ex Alitalia e l’ex Ilva di Taranto.

In pratica un’azienda in via di fallimento, che andrebbe radicalmente ripensata e di cui nessuno sembra tuttavia preoccuparsi. D’altra parte è stato così anche per l’Alitalia e per l’Ilva, nessuno ha impedito che finissero dentro a un burrone. Tutti i governi che si succedono pregano di non essere quello che chiuderà la Rai, eppure prima o poi qualcuno tirerà giù la saracinesca. Ma sullo sfondo di questo scontro personale e di potere ci sono anche ovviamente le scelte, queste sì dell’attuale management, finora non esattamente felici dal punto di vista della programmazione e degli ascolti. Con ricadute inevitabili sulla raccolta pubblicitaria (e dunque sul bilancio). La crisi d’ascolti della Rai riempie da giorni i quotidiani di spifferi, spesso insufflati, e Sergio, che è più largo (non solo fisicamente ma pure politicamente) di Rossi, lui che insomma è democristiano e trasversale, scafatissimo e simpatico, non viene troppo coinvolto nelle critiche rivolte al prodotto e alle trasmissioni semifallimentari messe in onda dalla televisione di stato.

Mentre a Rossi, che viene dalla destra di Colle Oppio ed è più un idealista che un pragmatico, viene attribuita, al contrario, l’intera responsabilità di ogni singolo fallimento, come se decidesse lui, e lui soltanto. E questo malgrado sia Sergio, tuttavia, l’amministratore delegato della Rai, cioè il capo dell’azienda, ovvero il responsabile ultimo di ogni scelta e di ogni decisione. Il fatto è che probabilmente la guerra competitiva a Viale Mazzini, quella che taluni avevano preconizzato tra i due proconsoli messi lì dal governo di centrodestra, sembra iniziata. L’equilibrio, già precario, è saltato. Ed è una rivalità che, come sempre, si manifesta anche sui giornali, che parteggiano (qui noi tentiamo la neutralità se ci riesce), nonché ovviamente sulle spoglie della Rai tv col suo debito ormai quasi miliardario. Secondo il progetto iniziale, condiviso dal governo, Sergio avrebbe dovuto cedere a Rossi il ruolo di amministratore delegato entro giugno 2024 per poi andare in pensione o forse diventare presidente della Rai. Ruolo di rilievo, sì, ma di certo non operativo. Tuttavia le cose stanno prendendo una piega diversa. Forse. L’eternità di foresta della Rai, il corpo eterno dell’azienda, quella cerchia di manager pubblici inamovibili e che sa stare al mondo, adora Sergio perché lo considera uno dei suoi.

Mentre attorno a Rossi c’è quell’ambiente ardimentoso, un po’ velleitario, e non sempre sveglissimo a dire il vero, dei “destri-destri” della Rai. Ed ecco qui allora tutto quel gioco d’incastri, riposizionamenti, minuetti e mezzi segnali che sempre accompagna i piccoli eventi di potere dentro la malconcia azienda pubblica di cui un po’ tutti si nutrono: vado alla presentazione del libro di poesie scritto da Mellone con gli “arditi” o vado invece alla presentazione del film di D’Agostino dove va Sergio con gli “eterni”? Bel dilemma. Sala Umberto o Cinema Adriano? Essere o non essere? C’è persino chi, come Osho, lo spiritoso vignettista, autore e sceneggiatore di fiction Rai, lunedì sera è andato da entrambi. Prima da Mellone per un po’, poi da D’Agostino per un altro po’. Non si sa mai. Tuttavia come sempre capita, anzi come recita l’adagio: “Tra i due litiganti il terzo gode”. Sicché nei cunicoli di Viale Mazzini, in quei corridoi che sembrano un alveare, alcuni sono convinti che a giugno, quando Sergio dovrà lasciare, a fare l’amministratore delegato sarà... Gian Marco Chiocci, l’attuale direttore del Tg1.

Né Sergio né Rossi, dunque. Giorgia Meloni vorrebbe completare il quadro nominando Rossi, ma persino la Lega si agita e già lascia intendere di avere cattive intenzioni: veti e ostruzionismo, pane per Matteo Salvini. A quel punto la premier che farà? E sono malizie diaboliche, certo. Veleni, spifferi, che poco attirano il lettore medio d’un giornale, ma che pure accendono d’interesse il corpo di bestia della Rai, la politica e tutto il sottobosco. Di Chiocci parlano tutti bene, perché ci sa fare, è un bravissimo giornalista e ha pure intervistato il Papa, malgrado anche il suo Tg1, come il resto della Rai, non se la passi benissimo: ha perso due punti di share rispetto all’anno scorso. Ma la sua principale qualità sarebbe quella di essere il terzo nome, il coniglio dal cilindro. Sergio annulla Rossi, ma Rossi annulla Sergio. Come andrà a finire? Ora noi qui lo diciamo non perché lo sappiamo, ma perché siamo maliziosi e pettegoli, anzi nemmeno glielo abbiamo chiesto (anche perché non risponderebbe): pare che Mario Orfeo, l’eterno degli eterni, insomma il gran visir di tutta la Rai, scommetta su Chiocci. Di solito ci piglia.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.