il foglio del weekend

Orsini, Di Cesare e gli altri: la fabbrica dell'ospite televisivo

Andrea Minuz

Così i talk-show fanno leva sull’esibizionismo e sull’egolatria degli esperti. Come nasce e dove porta la vanità

La sua gran rentrée a “#Cartabianca”, dopo la minaccia di un’epurazione durata sì e no quarantott’ore, aveva l’aria solenne degli eventi televisivi. Le bombe su Odessa e Mariupol, l’assedio di Kyiv, l’avvelenamento forse di Abramovich, tutto passava in secondo piano rispetto al ritorno in trasmissione di Alessandro Orsini. Ringraziandolo per avere accettato di venire “a gratis”, Berlinguer, visibilmente soddisfatta, lo invitava a entrare: “Prego professore, ormai la strada la conosce”. Il piglio severo, lo sguardo fisso, un po’ spiritato, Orsini calava subito l’asso: “Le persone mi hanno contestato per una ragione endopsichica, hanno paura che abbia ragione, temono la realtà”. Siamo dalle parti del monologo di Joker, poco prima di sparare in faccia a De Niro, al Murray Franklin Show. Mentre googliamo “endopsichico” ecco Scanzi che ce lo spiega facile: “Orsini ci sta antipatico perché ci prende, e dice cose che ci fanno paura: è il Crisanti della geopolitica”. Orsini ci prende. Siamo noi che non vogliamo accettarlo. Tiè. 

Come sempre in ogni grande evento, c’è stato un momento in cui il racconto dell’invasione russa in Ucraina ha smesso di essere dominato dai commenti sulla guerra per lasciare spazio ai commenti dei commenti sulla guerra. E’ il momento in cui parlarsi addosso, analizzare, sminuzzare l’estenuante flusso discorsivo della tv diventa più importante del racconto degli eventi (“ma ora basta parlare degli ucraini, parliamo di noi che parliamo degli ucraini”). E’ il momento in cui una ragnatela ingarbugliata di fatti  opinioni e minchiate in libertà, ormai tra loro inseparabili, cala come un pesante sipario sopra la realtà, annunciando il luminoso ingresso in scena di un nuovo eroe da talk-show. Lo chiameremo, d’ora in poi, il “momento Orsini”. Come i “momenti Federer” di cui parlava Foster Wallace, anche nei “momenti Orsini”, “spalanchi la bocca e strabuzzi gli occhi”. Resti incredulo di fronte alla potenza, la naturalezza, la rapidità di esecuzione di colpi improbabili, come coi rovesci portentosi dello svizzero. Bastano due o tre match ed è fatta: ogni altra partita sembrerà un noioso palleggio da fondocampo. 

 

Al consolidamento di Orsini nel ranking degli opinionisti ha contribuito il pastrocchio del suo ingaggio in Rai, col solito scollamento tra i reparti, lo scaricabarile, il penoso minuetto delle responsabilità. Da tempo RaiTre si è del resto specializzata nella creazione di dissidenti, martiri e paladini della libertà di parola, dal casino con Fedez al primo maggio al contratto stracciato di Orsini. Ma la costruzione di Orsini, inteso come personaggio televisivo, resta esemplare. Un caso virtuoso di catena di montaggio nella fabbrica degli ospiti: scoperto da Formigli, portato alla ribalta da Berlinguer, quindi dotato di rubrica sul Fatto, al posto del Messaggero (sul Fatto la dissidenza si porta meglio). Orsini è la maschera del momento, l’antagonista ideale (pacato, moderato, autorevole, freddo e impassibile), per questa fase di lunghissima incertezza geopolitica. Se Dario Fabbri rassicura e dà qualche certezza, Orsini lavora su angosce, doppi giochi, sensi di colpa. Insieme sono perfetti. Come Batman e Joker. I suoi highlight ormai sono noti: “Diamo a Putin tutto quello che ci chiede”; “Se Zelensky diventa un ostacolo alla pace, dobbiamo mollarlo”; “Le sanzioni siano commisurate al numero di bambini morti, come in Yemen”; “Il più grande onore della mia carriera e della mia vita di studioso è stato l’elogio della Tass, l’agenzia di stampa russa”. E poi il suo cavallo di battaglia: “Abbiamo provocato la Russia con gigantesche esercitazioni Nato a est”. Una frase il cui effetto teatrale è garantito: basta omettere le esercitazioni russe e quelle congiunte che, Nato e Russia, fanno insieme, dinamica chiara anche per chi non è abbonato a Limes ma ha visto “Top Gun” (e il sequel, non a caso, apre con tempismo perfetto il prossimo festival di Cannes). “La colpa di Orsini? Essere in disaccordo con la narrazione mainstream”, dice la deputata Yana Chiara Ehm di Potere al popolo in un intervento alla Camera. Ma il consenso è trasversale.

Astro nascente nel mercato degli opinionisti, Orsini lo è diventato subito passando, come si sa, in una manciata di giorni, dall’invisibilità di un oscuro professore universitario al rango di star più richiesta dai talk. Tutti lo cercano. Tutti lo vogliono. Se non possono averlo in studio lo evocano come un simbolo, il “dissidente Orsini”, come dice Giletti chiacchierando con Massimo Cacciari della “libertà di parola”. Attaccato per le sue idee “non omologate”, boicottato in Rai, poi riammesso, epurato da Wikipedia e pure da Instagram, dove chiede di segnalare il suo falso profilo, “il quale io stesso non posso taggare perché sono stato bloccato”, Orsini è invece attivissimo su Facebook. Qui campeggia la copertina del suo ultimo libro, “L’Isis non è morto. Ha solo cambiato pelle” e una foto profilo di Orsini in relax, sorridente, disteso, un po’ piacione. Nei post prolunga e chiarisce i suoi interventi televisivi. Mette alla gogna giornalisti e articoli che “falsificano i suoi pensieri”. Ricorda a tutti di tenere conto dei suoi quadri concettuali di riferimento, cioè i libri di Orsini: “Ho previsto l’invasione russa in Ucraina utilizzando il metodo di Weber”. Link e copertina del suo manuale di sociologia. Se non posta nulla spiega subito perché: “La mia assenza su Facebook è dovuta al fatto che sono assorbito dalla stesura del mio nuovo libro”. “Sono un medico, mi spaventa la mole, ma sono molto incuriosita”, gli domanda una fan, “può essere alla mia portata?”. “Cara Anna”, risponde Orsini, “fatta eccezione per la teoria della complessità di Weber, credo che non avrebbe problemi a capire tutto”. Poi aggiusta il tiro: “Sono certo che capirebbe anche quella teoria, però impiegherebbe un po’ più tempo rispetto alle altre parti del volume”. Tutto un fandom soprattutto femminile che si prodiga in commenti, cuoricini, like sotto le foto (Orsini in completo slim alle presentazioni dei libri di Orsini, Orsini in poltrona che legge la sua rubrica “Atlante” sul Messaggero, primi piani sparsi e intensi di Orsini, un po’ Tim Roth un po’ Tin Tin): “Tra intelligenza e fascino è un degno rappresentante dell’identità italiana. Di tanti di cui dovremmo vergognarci, tanti altri di cui poterci vantare”. Sì. Si rimorchia anche con la geopolitica.

Il sociologo della Luiss non ha mai avuto così tanto successo come da quando è diventato una vittima esemplare del “maccartismo”, ultima creatura mitologica del dibattito italiano. Mancava solo (ed è arrivata puntuale, come al solito) l’investitura di Freccero: “Orsini prova a valutare gli eventi senza fanatismo ma nel contesto attuale non è ammesso, sembra di vivere nel maccartismo”. Cosa c’è di più maccartista di un martedì sera qualsiasi in cui da Berlinguer parlano Orsini e Di Cesare, da Floris si elogia la florida democrazia russa che “i governi occidentali si sognano” (come dice Fulvio Grimaldi), e da Giordano c’è ospite Aleksandr Dugin, l’ideologo di Putin. C’è sicuramente un disegno per non farli parlare uno alla volta.

Il caso Orsini, si sa, ha tenuto banco sui giornali e in tv per una settimana. Ma, naturalmente, non ha nulla a che fare con la censura, il pluralismo, la libertà di parola, e assai poco anche con l’Ucraina, la propaganda russa (o americana, secondo Freccero). E’ invece un caso da manuale dei nostri tempi: ipertrofie dell’ego, esibizionismo, ansia di visibilità e la solita capacità della televisione di fiutarle a distanza, come gli squali col sangue. Poteva forse, la televisione, lasciarsi sfuggire un’analista che senza alcuna traccia visibile d’ironia scrive su Facebook: “Oggi ho lasciato il Messaggero. Mi scuso con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento solo per leggere i miei articoli”? O ancora, post “geopoetici” sulla vocazione nietzschiana d’ogni studioso, “ponte sospeso su un abisso”, con foto dell’Adelphi di Aurora tra le mani?

Le domande sono molte. Perché uno studioso che ha svolto ricerche significative e originali sulle brigate rosse e le loro matrici culturali decide di mettersi in scena così? Perché Orsini, che a suo tempo ha proposto letture brillanti sul conflitto tra l’opzione riformista e massimalista nella storia della sinistra (“Gramsci e Turati, le due sinistre”, con tanto di fascetta entusiasta di Roberto Saviano) accetta di trasformarsi in una macchietta televisiva? Perché finisce a straparlare di “consorterie molto potenti”, come uno Iacovoni qualsiasi che si scaglia contro le solite “conventicole”? (Il perché lo spiega Guia Soncini ne “L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi”, dove tra l’altro è ribadita l’assoluta centralità di Giancarlo Iacovoni, personaggio immortalato da Virzì in “Caterina va in città”, per comprendere l’Italia di oggi). Ma il fenomeno si spiega, in parte, anche con il “populismo accademico”. Quello strano incrocio tra università e personal branding (Barbero, Montanari, Donatella Di Cesare) che di questi tempi si porta molto.

Prima dei social, dei podcast, delle ospitate televisive fisse in un palinsesto dominato dai talk-show, il professore universitario nutriva il proprio ego nel chiuso dell’aula universitaria o nelle relazioni esposte in convegni catacombali, celebrati tra iniziati. Ora le possibilità sono sconfinate. Lo diceva pochi giorni fa anche Aldo Grasso: “Il professore universitario non s’interroga sui motivi per cui è stato invitato e così finisce prigioniero dei meccanismi infernali del talk, dove è bandita ogni complessità, dove regna la radicalizzazione, dove la rissa è l’alimento degli ascolti”. Qui, però, il confine tra finire in trappola e desiderare con ogni mezzo di finirci è assai sottile. Cacciato anche lui temporaneamente dalla Rai, dopo una birra sorseggiata in diretta a “#Cartabianca”, Mauro Corona confessò che in tv ci andava “solo per vendere qualche libro in più”. “E poi ho avuto una vita tormentata”, aggiungeva, “piena di disgrazie”. “Quindi ci vado anche per vanità, per dire ‘io esisto’”. Vendere i propri libri (o qualsiasi altra cosa), esibirsi, nutrire il proprio ego: il forsennato errare tra una trasmissione e l’altra della carovana di ospiti è tutto qui.

Non basta dire che i talk-show sono “spettacolo” travestito da informazione. Questo lo sanno o dovrebbero ormai saperlo tutti. Si guardano gli ospiti di Floris o Formigli o Berlinguer o Giordano sull’onda di un’insaziabile, primitivo “guilty pleasure”, come con “l’Isola” o il “Grande Fratello”  (“Come gli alcolisti, come i drogati, sappiamo benissimo che certi programmi ci fanno male”, scrivevano Fruttero e Lucentini, “ma il vizio è più forte di ogni saggio proposito, il dito si sposta irresistibilmente sul telecomando finché non ha trovato il canale maledetto”; s’aggiunga che ormai, con lo spaccio di talk-show a ogni angolo di palinsesto, disintossicarsi è  diventato sempre più difficile). Al riconoscimento della cifra cialtronesco-spettacolare, oltremodo indigesta se di mezzo c’è una guerra, bisogna però aggiungere la straordinaria capacità dei talk-show di rappresentarci in chiave iperbolica, grottesca, teatrale. Come una seduta di autocoscienza collettiva, parlano di noi, dei nostri tic, delle nostre megalomanie (vedi il transfert delirante con cui, ormai da un mese e passa, spieghiamo agli Ucraini cosa dovrebbero fare).

I talk-show lasciano emergere tipi sociali “rappresentativi di pezzi della società italiana”, come amano dire i conduttori. Ma lo dicono per lavarsi le mani. “Orsini è una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società”, spiegava Berlinguer protestando con la rete che gliel’aveva appena tolto, rimandando così a noi la responsabilità (non c’è dubbio che pescando a strascico nella “società italiana” o nei canali Telegram potremmo formare una superlega degli opinionisti, gli Avengers del dissenso, la sagra del punto di vista “controverso”). Ecco il punto. La retorica del “pluralismo”, come sempre capita col birignao postmodernista, è un’astuta paraculata per fare della ressa dello share una battaglia di civiltà in nome della “libertà di parola”. Come se Churchill, alla radio, dopo aver spiegato agli inglesi che “la Polonia è stata ancora una volta invasa da due grandi potenze che l’hanno tenuta in schiavitù per 150 anni, ma che sono state incapaci di conquistare lo spirito della nazione polacca”, aggiungesse, “ma ora è giusto che sentiate anche le ragioni di Hitler, qui accanto a me in studio, ci è venuto a trovare il dottor Goebbels, prego”.