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che musica fa

Sanremo finisce come doveva finire: vincono Mahmood e Blanco

Enrico Veronese

Il podio è stato una macropartizione di età: stagionati, mature, pischelli. Alla fine, come previsto, la spunta "Brividi". Appunti su un'edizione che ci ha detto molto sullo stato della musica italiana

È finita come doveva finire, come fra i tanti Il Foglio aveva pronosticato. I simpamici Mahmood e Blanco conquistano la 72^ edizione del Festival di Sanremo, davanti a Elisa e a Gianni Morandi, che in extremis subisce il controsorpasso della collega, nonostante la conta degli “scoiattoli” per racimolare i voti necessari almeno a mantenersi secondo. La critica intitolata a Mia Martini ha scelto opportunamente Massimo Ranieri, la sala stampa in nome di Lucio Dalla ha premiato il suo amico Morandi, il miglior testo (premio Bardotti) è andato a Fabrizio Moro tra parecchi mugugni, mentre gli angelici arrangiamenti orchestrali di Elisa (“quella stupida voglia di vivere”) le valgono l’apposita targa Bigazzi.

Neanche a farlo apposta, le tre macroripartizioni di età -stagionati, mature e pischelli- sono state tutte rappresentate nella terna finale, a garanzia del ritrovato ecumenismo mattarelliano nell’audience. La chiesa torna al centro del villaggio con una manifestazione di autonomia della politica, intesa come Festival dei fiori, rispetto al dover premiare chi ha più chance di far bella figura all’Eurovision, e bissare magari l’exploit dei Måneskin (ma diverso da loro). “Brividi” è un brano lento, emozionale, anche difficile: ma perché cozzare contro piramidi gonfiabili azere o yodeliste in dirndl, e non invece godersi l’esito di un Festival che unisce e copre il Paese più di quanto non si creda, al di là dei continui record di ascolti?

L’impressione di un hype crescente, ora dopo ora, ha permeato tutte le serate e gli spazi intermedi del giorno: Amadeus è quello che è, ma bisogna riconoscergli di essere anche un gran lavoratore, di aver operato bene in sede di direzione artistica -assortendo i generi- e di aver scelto ospiti all’altezza come Laura Pausini e Cesare Cremonini. A quando il ritorno dei top stranieri?

Chissà se intanto, nel caramello collante del Fantasanremo - il più riuscito caso di gamification nella storia d’Italia, sebbene complice del deterioramento di alcune dinamiche - potevano ricavarsi spazio anche un premio al miglior verso (secondo chi scrive: “Perché non posso bere veleno / nella speranza che muori tu”, di Highsnob e Hu), oppure per le ipotesi atte a svelare l’identità di Lucia: figlia, convivente, legittima, fantasma, signora Ponza di Giovanni Truppi.

Nel clima di sorellanza e di bromance, del bianco e nero e del lamè, cosa significa davvero vincere? La risata spontanea ed educata di Blanco, il mondo in mano a diciott’anni, coetaneo di Matteo Romano (“dirige l’orchestra la maestra Mariele Ventre”) nonché di Sangiovanni, e poco meno di Aka7even. La conferma del nuovo mainstream pop, che gira attorno al perimetro di Mahmood e Dardust: forma ibridata tra canto e discorso per arrivare a tutti, col rischio di non essere sempre canticchiati. Nella gara a fissarsi in memoria, viva chi si distingue almeno con la voce: perché certi bei testi devono diventare per forza canzoni discutibili?

Se è assodato che a volte già i titoli e i ventiquattresimi di SIAE dicono molto, brani scritti da cinque-sei autori (ma si disputano una parola a testa come i nipoti di Paperino?) fanno acqua più di quelli accreditati a una, massimo due persone. Come è stato autorevolmente sostenuto, l’abusato schema “partenza lenta con synth filtrato, ballad aperta al ritornello rock e al bridge rappato” sta funzionando meno che in passato. Alla quinta serata, al centesimo catenaccio, la superficie dei brani è già entrata in circolo, rivelando nuove parentele musicali (chi ha detto plagi?): “Le note sono sette” è il disclaimer usato come green pass. Ma perché proprio le stesse fra lo sfondo centrale di “Apri tutte le porte” e il climax disco di “Mi vendo”, Renato Zero 1977? Jovanotti e Morandi ambientano il brano-motivatore fra le SexxLaws di Beck, il Battisti di “7 e 40” e una cappa di Celentano, mentre Massimo Ranieri qualcosa da “Sentimento” degli Avion Travel avrà preso.

Tra i più complicati da sciogliere, La Rappresentante di Lista: un tweet satirico di Francesco Fumarola le accredita, dato il nome, la richiesta del riconteggio delle schede. Se appare plausibile che Ivan Urgant della tv russa provi a opzionarla e a tradurla, quante lezioni di aquagym verteranno sopra “Ciao ciao”? Basso distopico, cambi vorticosi, la canzone è gioia pura fra Spargo e Le Chic, easy Cattivi Pensieri, colonna di infiniti Pride. Veronica veste il vassoio di paste della domenica e il pubblico continua il brano da solo dopo il suo termine, come in sala stampa l’anno di Gabbani: e balla alzandosi dalle sedie, quando prima sarebbe stato incollato al proprio posto, lautamente pagato.

Anche la tavolozza di “Dove si balla”, over and over again, sfrutta Gigi d’Agostino per sciogliere le trecce ai cavalli: gli occhiali da sole di Battiato rivivono in Dargen d’Amico, l’unico a parlare delle traversie del settore. Proprio al Morandi di “Emilia”, con Dalla e Guccini, guarda Giovanni Truppi (“Ora ti saluto, è quasi sera e si fa tardi”), meno divisivo dell’opposto Tananai la cui orecchiabilità pare uscita dal cartellone del Mi Ami 2007: tra i suoi autori c’è Alessandro Raina, già leader degli Amor Fou e vocalist nei Giardini di Mirò. Se non lascia indifferenti, la ragazza con la pistola ha già fatto il suo: “Truppi e Tananai” si candida a titolo di un libro di Aldo Busi.

All’esterno dell’Ariston molte ragazzine per Sangiovanni, il Luis Miguel della loro generazione con le unghie turchesi e la musica da autoscontri: “Farfalle”, tormentone algoritmico, contiene però anche tracce di “Giulia” di Gianni Togni, quando la musica leggera italiana partoriva un capolavoro per ogni stagione. Come faceva Umberto Tozzi, trasfigurato in Aka7even al modo dei Subsonica, torinesi ruggenti; stranieri i referral per il new epic di Irama (Hozier), Ferreri (Cesaria Evora), Ana Mena (turbofolk balcanico oltre a “Ventiquattromila baci” affidati a una piccola Patsy Kensit). Ispirazione contesa per Le Vibrazioni da stadio e da Stadio, accostabili anche agli svedesi The Ark, mentre negli anfratti del teatro pare si aggiri ancora una Ditonellapiaga in cerca di un autore che la spari in orbita, fra tanti che si esibiscono e potrebbero non cantare in proprio: e tutti quanti continuano stramaledettamente a chiamarla Ditonella.

Perché la gente fa quello che vuole? Si chiede l’osservatore al comparire di Fabio Rovazzi che massacra Luigi Tenco: se non i freni all’ingaggio vengono meno, ammettendo ogni cover, allora Lauro meglio che se ne freghi di tutto, sì, e canti “Rolls Royce”, a sorpresa e visibilio del pubblico. Quando vinceva in primis una voce era il 2013, Marco Mengoni era “L’essenziale” e nove anni più tardi nobilita la finale assieme al medley in ricordo della Carrà, con la moltiplicazione delle raffaelle sul palco e la ballerina Giulia Boscolo di spalle a rappresentare l’originale. A ore Francesco, il vescovo di Roma, dialogherà in tv con Fabio Fazio, e c’è chi giura che dirà “papalina”: verrà l’onda lunga delle classifiche, e fino al compiersi dell’estate balleremo prigionieri dei brani di Sanremo, in attesa di nessun Festivalbar. È la sindrome di Ema Stockholma, dice argutamente il giornalista e deejay Fabio de Luca. Sanremo 2022 prova che la musica in italiano se la sta qualitativamente cavando: ma senza concerti, fiducia, allentamenti e calmieri di crisi, salvarsi sarà durissima.

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