Il presidente della Rai, Marcello Foa (foto LaPresse)

Il governo vuole cambiarla ma la Rai è già più governista del governo

Salvatore Merlo

Dai piani alti, anzi altissimi di Viale Mazzini, già s’odono voci flautate e liturgiche, parole di melassa: “Somos todos contianos, grillinos y piddinos”

Adesso dicono di voler mandare via Marcello Foa, il presidente della Rai sovranista, leghista e anche un po’ cospirazionista (twittava, tra le tante altre cose bizzarre, anche “notizie” a proposito di cene sataniche a base di mestruo e sperma cui avrebbe preso parte Hillary Clinton). E insomma la nuova/vecchia maggioranza di governo vorrebbe occuparsi della Rai, metterci le mani dentro, rimescolare e ripulire un po’. Ma già si capisce che i grillodemocratici, Di Maio e Zingaretti, Renzi e Fico, Taverna e Franceschini, vogliono cambiare un’azienda che intanto, all’improvviso, con flessuosità serpigna, assume le loro stesse fattezze, cioè diventa grillodemocratica, più di Giuseppe Conte e di Danilo Toninelli, una specie di mostro che comincia ad assomigliare sempre più al nuovo potere, una “Cosa”, proprio come nel film di John Carpenter. E poi a quel punto il nuovo governo che fa? Abbatte la sua immagine riflessa? Un bel guaio.

 

Ieri mattina, a Saxa Rubra, lì dove si registrano i programmi e vanno in onda i telegiornali, si è diffusa, tra i corridoi e dentro le mille tane che vi si affacciano, la notizia che la direttrice di Rai1, Teresa De Santis, fino a ieri supersalviniana e dunque secondo alcuni periclitante, ha assunto un nuovo autore a “Unomattina”: si tratta di una bravissima giornalista di sinistra che viene dal Manifesto. Non è una prova, ma un indizio. Ci si può forse scorgere il principio di un principio. E d’altra parte, De Santis è dalla sinistra che viene, ed è alla sinistra che a quanto pare adesso forse ritorna. Salviniana, sì. Ma pure dalemiana. Come tutti, all’incirca.

 

La Rai che si prepara a subire la rimozione (per la verità complicatissima) di Marcello Foa è come la sabbia che si infila dovunque, è come l’argilla che assume tutte le forme amate: è materia proteiforme. “La Rai è corruttibile nell’anima ma non nello stile”, ama dire spesso Carlo Freccero. E dai piani alti, anzi altissimi di Viale Mazzini, già s’odono infatti voci flautate e liturgiche, parole di melassa: quasi il canto furbissimo d’un mondo incapace di contrizioni e sfide. “Somos todos contianos, grillinos y piddinos”, dicono adesso, lì dove da sempre ci si adegua alle spire contraddittorie della vita politica con un soffio di svolazzante classicità, cioè fra i direttori di rete e di testata, tutt’intorno alle stanze del sempre più solo Fabrizio Salini, l’amministratore delegato che potrebbe sopravvivere o forse no al cambio di governo.

 

Dice allora Michele Anzaldi del Pd, deputato reattivo e sempre vigile anzi vigilissimo (sta in Vigilanza): “L’elezione di Foa non fu valida. Due schede erano segnate. Adesso bisogna riaprire quel file, i Cinque stelle non possono più dire di no. Bisogna dare alla Rai un vero presidente di garanzia. Una figura di altissimo profilo”. Ma chissà. Niente può agitare gli eterni sogni trasformistici dell’intendenza, del mandarinato Rai, di quegli uomini sempre presenti e reattivi a tutte le manifestazioni dello spirito politico: pieni di buona volontà, saltellano dalla nave di Berlusconi all’autobus di Prodi, dai baffi di D’Alema ai tweet di Renzi, dalle sabbie del Papeete di Salvini al fazzoletto a quattro punte di Conte, come tordi sulle siepi.

 

“La Rai è politica nelle sue fibre più profonde. E’ governativa, perché il potere politico è il suo azionista”, dice allora Giovanni Minoli, che l’azienda l’ha abitata per tutta la vita. “Quando sento espressioni come ‘fuori la politica dalla Rai’, un po’ sorrido. Provo la stessa sensazione che avvertirei sentendo una frase del tipo: ‘Fuori i Ferrero dalla Ferrero’. E’ semplicemente impossibile”. Non si può guarire da se stessi. La politica in Rai va al pascolo, da sempre. Tant’è vero che nessuno, nemmeno adesso, storce la bocca dinanzi ai politici che sgomitano e s’impicciano, che biascicano parole dal suono minaccioso e contemporaneamente vano. Anzi. Questa è una vecchia e cara musica, figuriamoci! Così persino Anzaldi, che pure è quello più agguerrito di tutti, dentro e fuori dal Parlamento, alla fine si abbandona a un tono di mestizia. “Se mi chiedete come andrà a finire”, dice soffiando come gli attori a teatro, “se mi costringete a scommettere, allora ve lo dico”. Dica. “Si riciclano tutti. Non cambia un piffero. Avete presente il Tg2?”. Sì, certo. “Ogni volta che alla mattina critico i loro servizi salviniani, ecco che il direttore alla sera invita uno del mio partito”. E certo il trasformismo Rai fa quasi sorridere rispetto al magma fluido del Parlamento, al presidente del Consiglio che a Palazzo Chigi passa la campanella dalla sua mano destra alla sua mano sinistra. E forse s’intuisce allora quanto la Rai sia ancora e per sempre un universo di senso e controsenso che rispecchia l’Italia così com’è, dal Gattopardo a Fantozzi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.