Agostino De Pretis visto come un camaleonte per il suo progetto del “trasformismo” mirante a governi sostenuti da deputati di tutti gli schieramenti (Wikipedia)

Dàgli al trasformista

Giuseppe Bedeschi

Un po’ di chiarezza su una parola che nei decenni ha assunto una esagerata connotazione moralistica

Oggi si parla molto, nei commenti politici sui giornali, di “trasformismo”, in relazione al costituirsi del governo Conte bis: e la parola viene usata con il significato negativo-spregiativo che l’ha caratterizzata per moltissimo tempo nella storia del nostro paese. Il governo Conte bis è frutto di un’operazione trasformistica, si dice. Dunque va respinto con disprezzo: questo il leit-motiv di diversi commentatori.

 

Può essere utile, a questo punto, dare uno sguardo all’origine della parola “trasformismo” in senso politologico.

 

Nel 1876, nel corso della campagna elettorale, Agostino Depretis, leader della Sinistra, in un discorso pronunciato a Stradella, aveva invocato “quella concordia, quella feconda trasformazione dei partiti”, che solo avrebbe consentito la formazione di una “salda maggioranza”. Sei anni più tardi, nel 1882, nell’imminenza delle prime elezioni politiche a suffragio allargato, rispondendo a coloro che avevano criticato gli accordi da lui presi con la Destra di Marco Minghetti – accordi che, secondo questi critici, snaturavano il programma della Sinistra – Depretis rispose con queste parole divenute famose: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”.

 

Gli accordi (e dunque l’alleanza) fra Depretis e Minghetti provocarono notevoli fratture nella Sinistra, e sollevarono un mare di critiche, le quali convergevano su un punto: il trasformismo era sinonimo di una politica senza princìpi, di amoralità, di sostanziale corruzione. Come ha giustamente scritto lo storico Giovanni Sabbatucci: “Se ‘opportunismo’ è diventato un termine universale (…), quella di ‘trasformismo è rimasta invece una categoria tipicamente italiana. Una categoria che (…) è stata assunta a elemento cardine del carattere nazionale: il trasformismo come vizio italico, come segno di un’inclinazione maturata attraverso i secoli, a non prendere troppo sul serio fedi e ideologie”.

 

Si potrebbero citare molti storici e politologi che hanno usato la parola trasformismo nel senso di cui sopra. Un caso esemplare, e assai istruttivo, è quello di Piero Gobetti, secondo il quale la lotta politica in Italia aveva sempre mostrato caratteri deteriori perché il nostro paese non aveva avuto la Riforma protestante, e anzi aveva avuto tutti i danni della Controriforma; inoltre il Risorgimento era stato una rivoluzione fallita, perché era stato azione di pochi, alla quale la maggioranza del popolo italiano era rimasta estranea. Perciò gli italiani con il Risorgimento non erano riusciti a formarsi una coscienza dello Stato. Ecco perché la vita italiana dall’Unità in poi era stata divorata da un cancro che aveva spento in essa ogni dibattito ideale, ogni genuino confronto di proposte e di programmi: questo cancro era stato il trasformismo, da Depretis a Giolitti, allo stesso Turati.

 

Il “trasformismo” così inteso diventa una categoria di impronta fortemente moralistica, scarsamente adatta, io credo, a indagare la nostra storia con un minimo di concretezza e di realismo. A me pare che la critica più efficace al “trasformismo” così inteso sia stata formulata da Benedetto Croce nella sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” (1928). “Dopo il 1885, – ha scritto Croce – il trasformismo si era così bene effettuato che non se ne parlò più, e il nome stesso uscì dall’uso. Ma sempre quel nome, quando fu ricordato, parve richiamare qualcosa di equivoco, un fatto poco bello e la coscienza di una debolezza italiana; e l’eco di quel sentimento perdura nei libri degli storici, degli storici che sono di solito professori o altra candida gente, tutta smarrita al susseguirsi dei mutamenti ministeriali, al continuo fallire della loro sospirosa speranza di un “governo stabile”, e, insomma, al cangiamento delle cose, perché, secondo il segreto desiderio del cuor loro, le cose dovrebbero restar ferme; e non riflettono che in questo caso non avrebbero più storie da scrivere, neppure come quelle che di solito scrivono”.

 

Alla luce di tutto ciò, io credo che appioppare all’esperimento del governo Conte bis la definizione di “trasformista” non sia sufficiente per condannarlo a priori. Resta aperto, naturalmente, un problema vero e reale: se il Movimento 5 stelle e il Pd riusciranno ad accordarsi su un programma (cioè su una serie di provvedimenti) realistico e fattibile, che sia di giovamento al paese. Ma questo ce lo dirà non qualche etichetta moralistica, bensì il concreto svolgimento della vicenda politica.