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La tv che anticipò il grillismo

Andrea Minuz

Il triste remake di “Portobello”, ora che la “genuina follia della gente” è diventata establishment

Come nelle esperienze di premorte in cui sfilano davanti ai nostri occhi amici e parenti defunti che ci invitano a raggiungerli, i remake televisivi servono a rendere più dolce la fine, la scomparsa, la transizione della tv verso l’ignoto. Il “Rischiatutto” di Fazio, la “Corrida” di Carlo Conti, “Portobello” con Antonella Clerici diventano così altrettanti capitoli di una lenta agonia della tv generalista celebrata in prima serata, come un lungo training per l’altrove. Anche nel salotto di Barbara D’Urso, una domenica sì e un’altra pure, i “vip” raccontano il loro contatto ravvicinato coi defunti: figli morti, santi, apparizioni, epifanie. Little Tony si manifesta alla figlia con luci accese all’improvviso di notte e pianoforti giocattolo che prendono a suonare da soli, tipo “Toy Story”, ex veline di “Non è la Rai” confessano incontri ravvicinati con Gesù, Pippo Franco vede gli spettri da anni, Manuela Villa ha premonizioni continue e Padre Pio (ormai saldamente al governo) salva dagli incidenti stradali soprattutto attori, attrici, presentatori televisivi. All’eterno presente di Twitter e Facebook, la televisione generalista contrappone la carta del passato che non passa, l’eterno ritorno, il trascendente o il paranormale.

 

All’eterno presente di Twitter e Facebook, la tv generalista contrappone la carta del passato che non passa, o il trascendente

Il cerchio aperto da Tortora si chiude. Il pubblico ha vinto la sua battaglia per la visibilità, il pubblico spiega la televisione alla televisione

Se gli anni Settanta rievocati da Fazio e Baglioni con “Anima mia” erano ancora dalle parti del vintage, della nostalgia, della memoria collettiva, col nuovo “Portobello” si sconfina apertamente nei funerali di Stato; anche Clerici arriva in studio vestita tutta di nero con solo un pappagallo glitterato sulla giacca, le luci sono basse, in penombra, l’atmosfera è solenne: “Sono passati trent’anni, ma il ricordo è ancora vivo, io ero lì con mia mamma e mia sorella sul divano a guardare ogni puntata e oggi sono qui”. “Il cuore del programma”, aveva già spiegato in conferenza stampa, “sarà la genuina follia della gente”. Solo che nel frattempo, l’idea dirompente di Tortora è la norma; la “genuina follia della gente” è diventata establishment, sui social ci imbattiamo ogni giorno in inventori pazzi, cuori solitari, dilettanti allo sbaraglio; la rubrica “Casa mia, casa tua” oggi si chiama Airbnb, “Fiori d’arancio” si fa su Tinder e persino Facebook, nel suo impianto iniziale, sembra scaturito da “Dove sei?”, la finestra di “Portobello” con cui Tortora rimetteva in contatto persone che si erano perse di vista. Il confronto tra le due versioni di “Portobello” è, come sempre in questi casi, impietoso. Ma il remake diventa utile per studiare l’evoluzione italiana degli ultimi quarant’anni; “Portobello” come archeologia della deriva populista che trionfa ovunque nel mondo, sintomo delle trasformazioni politiche, sociali, televisive, del nostro paese, di certo più preciso e affidabile del “fascistometro” di Michela Murgia.

 

Nel 1977, quando la trasmissione fa il suo esordio, la gente comune in tv era una novità. L’idea di un “people-show” costruito sulle bizzarre trovate di inventori improvvisati portava alla ribalta un’Italia profonda, fatta di persone che reclamavano una platea per uscire dall’anonimato, spettatori che non si accontentavano più di stare dall’altra parte del televisore a vedere gli sceneggiati del venerdì (serata che prima di “Portobello” era dedicata al teatro di prosa, con pochissime o nessuna via di fuga per lo spettatore). Ma il monopolio si stava incrinando, la Rai stava esaurendo la sua funzione di servizio pubblico; “la gente è stanca di stare di fronte alla tv”, diceva Tortora nel 1979, “oggi vuole sentirsi partecipe, protagonista”. Eccoci qui. Enzo Tortora scopriva la materia alla quale avrebbe attinto tutta la televisione dopo di lui e in seguito la classe dirigente del paese. Rivedendo qualche puntata di quegli anni (ora disponibili su RaiPlay) si capisce quanto il pensiero grillino sia saldamente radicato nelle viscere del paese. All’epoca, il ricco materiale umano della gente comune arrivava per la prima volta in tv come una parata di idee strampalate: la spazzola ad acqua per bagnare i vestiti prima di stirarli, la scheda elettorale circolare, le patate che crescono da sole, il gelato antisgocciolo, il pullman-osteria per i pensionati, fino alla celebre proposta di spianare il colle del Turchino eliminando per sempre la nebbia in Val Padana. Viste oggi appaiono tutte plausibili manovre di governo (non il Turchino, che rientrerebbe nelle grandi opere contestate). L’Italia di “Portobello” ha preso il potere e grillini sembrano usciti tutti dai testi di Enzo Tortora. Per esempio, nella prima puntata di questa nuova versione avremmo voluto vedere il ministro Toninelli da Soresina, provincia di Cremona, che spiega il funzionamento del tunnel del Brennero, oppure Barbara Lezzi da Lecce che mostra come far impennare il pil con l’acquisto indiscriminato dei condizionatori, o Laura Castelli da Torino che illustra il metodo di erogazione del reddito di cittadinanza nel dettaglio. Di fronte a questa roba qui, il signore di Sossano che propone di raddrizzare la Torre di Pisa per evitare rischi di crollo, visto nella prima puntata, è solo una replica stanca, un dilettante, una pallida imitazione.

 

“La grande trovata di Portobello”, come ricorda Aldo Grasso nella sua “Storia della televisione”, fu di “considerare la provincia come l’ideale bacino d’utenza dell’audience televisiva”; tra le mani sapienti di Enzo Tortora prendevano forma “spezzoni di realtà provinciale e vicende solitamente ignorante dai mezzi di comunicazione di massa”; era “una provincia inaspettata e volte bizzarra, sovente strappalacrime e mammista, ma abbastanza genuina da dare ogni volta al pubblico il senso di una scoperta”. Puntata dopo puntata, scrive sempre Grasso, “Portobello crea una funzione di autorappresentazione evidente: l’Italia non è fatta dalle élite”. Quarant’anni dopo, ne avremmo tratto tutte le dovute conseguenze politiche.

 

D’altronde, “Portobello” fu anche un grande incubatore di democrazia diretta. In una puntata del 1981, Giancarlo Zuccaro, di professione giornalista, proponeva agli italiani di esprimersi per telefono sul cambio dell’inno di Mameli con il “Va’ pensiero” di Verdi, anticipando così uno dei grandi cavalli di battaglia della Lega. Oggi si potrebbe invitare Giorgia Meloni per sentire come la pensano gli italiani sulla sostituzione del 25 aprile col 4 novembre. Nel 1979, Tortora provò a costruire una puntata speciale con l’idea di invitare alcuni politici di spicco tra cui Craxi e Andreotti. Avrebbero preso il posto delle centraliniste per ricevere le telefonate degli spettatori in diretta, rispondendo a tutte le loro indicazioni, critiche, proteste. Prove tecniche di disintermediazione che all’epoca furono bloccate dalla commissione di vigilanza Rai. Oggi sembrerebbe quasi una cerimonia solenne. Enzo Tortora aveva colto con grande anticipo le trasformazioni in atto, lo Zeitgeist a venire, come dimostrerà in modo ancora più marcato con uno spin off di “Portobello”, “L’altra campana” andato in onda nel 1980; trasmissione costruita sulla possibilità di far votare il pubblico da casa (altra novità radicale), invitandolo ad esprimersi sugli argomenti più disparati, con rubriche per artisti incompresi e persone convinte di avere talento, come “Meglio io” o “Vissi d’arte”, che sin dal titolo sembrano raccontare di più la Instagram society di oggi che l’Italia degli anni di piombo.

 

Anche il nuovo “Portobello” riparte dal racconto della provincia, ma funziona decisamente meno. Così, a un certo punto Antonella Clerici lancia l’hashtag #cazzomarro, in riferimento a un celebre piatto conteso tra Puglia e Basilicata che si tramanda “di generazione in generazione”, con le due regioni rappresentate da altrettante testimonial che cucinano il cazzomarro. Ma siamo più dalle parti della “Priva del cuoco” che nell’Italia dei territori, sembrano inserti di teatro dialettale, una versione populista del vecchio sceneggiato Rai. C’è però un gruppo di “acchiappafantasmi” che si offre per disinfestare case funestate da spettri. Clerici li presenta con un micidiale filmato tipo “Paranormal Activity”, tanto per ribadire l’ossessione post-mortem della tv. Basterebbe metterli in contatto col parterre di vip di “Domenica Live” e il gioco è fatto.

 

“La gente è stanca di stare di fronte alla tv”, diceva Tortora nel ’79, “oggi vuole sentirsi partecipe, protagonista”. Eccoci qui

Palcoscenico per le idee della gente comune: il gelato antisgocciolo, il Turchino da spianare. E un grande incubatore di democrazia diretta

Franco Monteleone, per molti anni dirigente Rai, ha scritto che “Portobello” fu “il frutto di un primo grande cedimento dell’apparato televisivo pubblico alle zone d’ombra delle televisioni private, ai loro giochi casalinghi, alle pratiche delle compravendite attraverso il video, all’uso ripetitivo del telefono”. Magari la Rai avesse ceduto di più a tutte queste zone d’ombra del mercato, delle merci e della vita moderna, tutte cose di cui non c’è traccia nel “Portobello” di Antonello Clerici. Anzitutto, la trasmissione di Tortora durava poco più di un’ora e mezzo, quella della Clerici tre ore e venti. Più il nostro stile di vita diventa forsennato, più la televisione generalista italiana insegue tempi e ritmi sepolcrali, sforzandosi di assomigliare a un film sperimentale di Andy Warhol, tipo “Sleep” in cui vediamo un uomo che dorme per trecentoventuno minuti. Una modalità contemplativa che forse spiega anche come mai un blackout della Rai a volte fa uno share più alto di Fazio. Questa lentezza televisiva, così specifica dell’entertainment italiano, emerge ancora meglio proprio con i reboot e i remake. Il “Rischiatutto” di Fazio passerà alla storia come la più alta negazione dell’idea di ritmo televisivo e di sicuro avrebbe funzionato di più come installazione “optical” in una Biennale di Venezia. Anche sabato scorso, i tentativi di Arisa e Carlo Verdone di far parlare il pappagallo erano in effetti strazianti; il pubblico gli ha preferito Maria De Filippi e Belen con “Tu sì que vales”, a suo modo ennesima costola del “Portobello” di Tortora. Il motivo è semplice. Nell’epoca del populismo digitale e della democrazia diretta, “Portobello” è una contraddizione in termini. Incomprensibile per chi ha meno di quarant’anni, troppo malinconico per chi ha un ricordo vivo del format di Enzo Tortora, si trascina dietro un inquietante effetto cortocircuito innescato dal protagonismo della gente. Perché quella che all’epoca era una formidabile, innovativa risorsa televisiva, oggi è un problema epocale. Così, per tutta la settimana, in molti su Twitter hanno ideato i loro suggerimenti per migliorare il programma; perché magari la televisione non la guardiamo più, ma tutti crediamo di sapere come si scriva, tutti sentiamo il dovere di spiegare ai diretti interessati come dev’essere fatta. “Grazie, possiamo e dobbiamo migliorare”, ha risposto Antonella Clerici, “farò tesoro dei vostri consigli e critiche”. Il cerchio aperto da Tortora si chiude. Il pubblico ha vinto la sua battaglia per la visibilità, il pubblico spiega la televisione alla televisione.

 

Oggi il pappagallo arriva scortato da due bodyguard e bordo di una Rolls bianca e entra nello studio sfilando sul red carpet, come gli ospiti del “Grande fratello Vip”. Ma neanche il genio visionario di Enzo Tortora avrebbe previsto, quarant’anni dopo, le proteste degli animalisti. “Ci sarà un’impennata di vendite di questi animali che dovrebbero vivere in libertà. E’ irresponsabile esibirli in tv!”, tuona la Lega anti vivisezione che su Twitter rilancia un comunicato ufficiale; vale la pena riportarlo: “Dopo più di trent’anni di passi avanti contro la sofferenza degli animali, riproporre in tv, tra rumori e luci, pappagalli o acquari significa non aver compreso che la società si è evoluta; invitiamo gli autori di RaiUno a fare show senza animali” (il riferimento è anche ai pesci imprigionati nello studio di “Che tempo che fa”). E’ intervenuta anche la Sos pappagalli onlus che ha presentato una denuncia contro la Rai, reclamando contro “la corda avvolta più volte nel trespolo (come si evincerebbe da un’analisi dei fotogrammi)”, suggerendo che “non sarebbe stato difficile trovare un pappagallo ben socializzato ed equilibrato per gestirlo completamente libero di esprimersi”. Si parla anche di un “nastro adesivo trasparente” sul becco del pappagallo e qui si apre lo scenario più temuto: tortura, violenza e impostura (come farlo parlare se ha il becco cucito?). “Vorrei avere io tutte le attenzioni che ha lui”, ha replicato Antonella Clerici, cercando di riportare tutto nei binari della normalità. Sta di fatto che l’animale ora non è più legato sul trespolo, la catena è sparita, pare sia stato sostituito con un altro pennuto, staremo a vedere. Rischia di profilarsi un nuovo caso Asia Argento-“X Factor”.

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