Apu e Bart Simpson

Elogio della scorrettezza

Mariarosa Mancuso

Guardate i Simpson e guardate come demoliscono puntata dopo puntata il politically correct. Non solo non si pentono, ma delle loro bravate vanno pure fieri. E’ il segreto del loro successo

Si fa prima a trovare qualcosa che non offenda. Nei “Simpson” abbiamo visto maestre ubriacone, psicoterapeuti che fanno terapia familiare assegnando a papà, mamma e bambini un bastone-teaser con la scossa, documentaristi britannici che hanno la puzza sotto il naso, giudici forcaioli, americani white trash che sperano di uscire dalla povertà con una moneta diversa dal dollaro, rabbini con figli clown, italiani con ristorante tipico e clienti mafiosi, locali per gay poco attraenti (i gay, non i locali).

E ancora: vicini di casa così fiduciosi nella Bibbia da credere che il sole giri attorno alla terra, scarichi radioattivi che inquinano il ruscello e generano pescigatto con tre occhi, giardinieri scozzesi che nel doppiaggio italiano diventano giardinieri sardi a dispetto di capelli e barba rossi, bambini passati al registratore di cassa, genitori che come unica educazione insegnano ai rampolli la frase utile per ogni occasione: “Era già così quando sono arrivato”, politici che come slogan elettorale urlano “non può farlo qualcun altro?”

 

Ora c’è Apu l’indiano. Le offese inizierebbero dall’appropriazione indebita del nome: la “Trilogia di Apu”, neorealismo d’autore anni 50

E ora ci dovremmo preoccupare per Apu l’indiano? Nome per intero Apu Nahasapeemapetilon (benedetto il copia/incolla, che ci salvò dalla disperazione ortografica anche quando fu di Apichatpong Weerasethakul, regista thailandese vincitore a Cannes nel 2010, mentre il resto del mondo trepidava per il finale di “Lost”). Apu nei Simpson è il personaggio di origine asiatica (bengalese, per non far di ogni erba un fascio). Gestisce a Springfield un negozietto, ha la pelle scura, parla con l’accento, cambia le date di scadenza al cibo e saluta i clienti con “grazie, torni presto”. Ha fatto un matrimonio combinato e ha sfornato otto figli gemelli (per nutrirli attacca otto biberon a un gilet). Scopriremo che possiede una laurea in Informatica e ha conosciuto Paul McCartney, quando i Beatles erano in India a meditare. E’ vegano, quindi fa comunella con Lisa, la correttezza politica fatta ragazzina.

 

Le offese comincerebbero dall’appropriazione indebita del nome. La “Trilogia di Apu” comprende tre film girati dall’indiano Satyajit Ray negli anni 50. Neorealismo d’autore, vale a dire aratri, caprette, monsoni, miseria in rigoroso bianco e nero: niente a che vedere con i film bollywoodiani dove ogni venti minuti parte un numero di canto e danza (qualunque sia il genere, romantico o poliziesco). L’uso disinvolto da parte di un bianco discolo come Matt Groening – che ha battezzato Marge e Homer come i propri genitori: “Non avevo idee migliori, quel giorno” – va considerata colpa grave.

 

  

Le altre accuse sono nel documentario “The Problem with Apu”, diretto l’anno scorso da Michael Melamedoff e scritto dal comico Hari Kondabolu, trentacinquenne nato nel Queens da genitori immigrati dall’India, entrambi medici. Durante uno spettacolo si sentì dire “Grazie, torni presto” e molto si risentì. D’accordo: non c’è mestiere più angosciante di chi sta sul palco e vuole fare ridere senza riuscirci. Ma al netto degli scacchi personali, un comico dovrebbe saper riconoscere una battuta anche quando la pronuncia qualcun altro. E “Grazie, torni presto” era un’appropriata citazione – perdipiù ribaltata, Apu il droghiere è servile con i clienti, lo spettatore invitava il giovanotto sul palco a mollare il microfono. Oppure bisogna ridere per forza, per non offendere e per pari opportunità, quando il comico appartiene a una minoranza?

 

In “The Big Sick”, si ride sui genitori indiani che vogliono il figlio laureato, e gli presentano ogni sera una brava ragazza da sposare

Non è fantascienza (apocalittica). Ci stiamo arrivando, vista e considerata la sopravvalutazione di cui gode il comico di origine bengalese Aziz Ansari, premiatissimo per la serie “Master of None” (prima che arrivasse su di lui la mannaia delle molestie, a seguito di un appuntamento che pareva più che consenziente: “Figo, esco con la celebrità”). Sopravvalutato al pari dell’altro comico di origine pachistana Kumail Nanjiani, assai applaudito per il film “The Big Sick”, diretto da Michael Showalter. “Il matrimonio si può evitare… l’amore no” è l’aiutino per lo spettatore italiano che in caso di traduzione letterale avrebbe disertato le sale facendo scongiuri, non ha funzionato granché.

Né l’uno né l’altro entusiasmano, qualche risata tiepida ma per noi finisce lì, niente di niente se paragonati al genio di Louis C. K. (pure lui disoccupato di questi tempi come Woody Allen). Eppure Aziz Ansari vorrebbe satireggiare i moderni costumi amorosi (ha scritto anche un libro, “Modern Romance”, prontamente scaricato su Kindle e abbandonato dopo primi sbadigli). Kumail Nanjiani racconta invece il suo fidanzamento con una ragazza che misteriosamente cadde in coma, se la cavò e ora è sua moglie. Un simile e zuccheroso lieto fine – rifletteteci – è consentito solo in caso di coppie miste. Sennò siamo pronti alla pernacchia, per rispetto alla tradizione: in “Love Story” e in “Romeo e Giulietta” non vissero affatto felici e contenti fino alla fine dei loro giorni, quelle sono le favole.

Aggiunge qualche numero da stand up comedian – francamente riescono meglio agli anglosassoni, per far la nostra parte in materia di stereotipi. Comunque, in “The Big Sick”, si ride sui genitori indiani che vogliono il figlio laureato, e gli presentano ogni sera una brava ragazza da sposare. Non si capisce perché qui la censura non colpisce, mentre l’orgoglio indiano ha avuto da ridire anche su Rajesh Ramayan Koothrappali, l’astrofisico indiano di “The Big Bang Theory”: genitori ricchissimi, sospetto di gaytudine, mutismo selettivo quando in giro c’è una femmina.

 

Hari Kondabolu imputa ai Simpson gli sfottò dei compagni quando andava a scuola, variabili a dipendenza delle sciagure capitate a Apu nell’episodio in onda il giorno prima. Al droghiere sparano talmente tante volte, a scopo di rapina e anche no, che la pena viene scontata a cento dollari. Nella nostra ingenuità cinefila, pensavamo fossero la parodia della classica “rapina al drugstore”, o che servissero per ricordare agli spettatori che “Asian Lives Matters”. Sbagliato. Intanto Hari Kondabolu, in cerca di altri mulini a vento contro cui combattere, ha avviato una campagna per cambiare il nome alla squadra dei Washington Redskins, giacché “redskin” offende i pellerossa.

 

Matt Groening ha contrattaccato, in differita perché la produzione televisiva ha i suoi tempi. In un tentativo di disintossicare la famiglia dalle diavolerie elettroniche, mamma Marge legge a Lisa un libro di carta che tanto le piacque da piccola. Illeggibile a correttezza politica imperante. Possiamo mettere come data l’inizio le “Fiabe della buonanotte politicamente corrette”, riscritte da James Finn Garner nel 1994 per crescere una generazione immune da sessismo, razzismo, specismo e da altre discriminazioni, estese a streghe, folletti, e fate.

In televisione, nel 1959, Lenny Bruce fu presentato come “il comico più scioccante di tutti i tempi”. Era una medaglia, non una condanna

E quindi repulisti. La nuova fiaba recita di una ragazza “cisgender” (il contrario del transgender: non sono loro a scollinare, siamo noi i limitati che si accontentano di dove siamo stati messi dalla natura). Libera i cavalli selvaggi e combatte per la neutralità della rete – sempre maledettamente in ritardo, alla luce di Facebook mangiadati. E perfino Lisa – la ragazzina che studia con profitto, suona uno strumento da maschio come il sassofono, risulta estranea al modello “mangiatore di schifezze & elettore di Donald Trump” che Homer Simpson aveva prefigurato trent’anni fa – sbuffa per la noia mortale di una storia troppo corta e di un personaggio-santino. Le purghe ammazzano i libri (e molte altre cose).

 

Neanche qui è fantascienza (apocalittica). Persone che si credono assennate hanno proposto di levare la parola “nigger” dai romanzi di Mark Twain, o in alternativa di levare i libri di Mark Twain dalle biblioteche e dai corsi universitari. Davvero un bel risultato: uno scrittore rivoluzionario – per aver dato al linguaggio parlato diritto di cittadinanza nella letteratura americana – viene allontanato perché urta la permalosità d’oggi. Tra un po’ vorranno togliere anche la scena dove Tom Sawyer, obbligato da zia Polly a pitturare settanta metri di staccionata, convince un amico che si tratta del lavoro più divertente del mondo. Lui ci casca e afferra il pennello. Non è bello che Tom sia più intelligente degli altri ragazzini. Non è educativo che l’amico si lasci convincere facilmente (“stratagemma da piccolo capitalista cinico”, abbiamo letto da qualche parte). E che dicono le leggi sul lavoro minorile? Siccome i bravi scrittori hanno la vista lunga, Mark Twain scrisse a futura memoria: “Chi cercherà di trovare uno scopo in questo racconto sarà processato; chi cercherà di trovarvi una morale sarà bandito”.

 

 

Matt Groening graffia già dal titolo: “No Good Read Goes Unpunished”. “Nessuna lettura edificante resterà impunita”, sulla falsariga di “Nessuna buona azione resterà impunita” (pensateci un attimo, capirete che è una perla di saggezza, quasi più delle tante lacrime che si versano per le preghiere esaudite). Alla stagione numero 29, il problema dei “Simpson” non è conquistare le biblioteche scolastiche – sono già da tempo nel canone dei classici pop americani. Il problema è stare all’altezza delle prime stagioni della serie, che non facevano prigionieri e accumulavano tante citazioni che le si potrebbe dare da studiare a scuola. Anche d’arte, oltre che di comicità: Bart Simpson sputa dalle scale mobili al centro commerciale, e si ritrova nel “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch. Mica si può andare avanti con “Grattachecca e Fichetto” (Itchy & Scratchy, prima che arrivi l’orticaria da traduzione): fanno addormentare in diretta anche Krusty il Clown, figuriamoci noi che non li abbiano mai amati.

 

Il dramma del comico che non riesce a far ridere non è nulla a confronto del dramma del comico che non può più scrivere. Non per il blocco creativo, per i paletti che ovunque spuntano. “Questo no, questo non si può, questo mi saltano addosso le femministe, questo mi saltano addosso i messicani, questo mi saltano addosso gli indiani, questo offenderà i musi gialli (copyright Sarah Silverman) e i vegetariani chi li tiene? e le associazioni di categoria?” Va a finire che si potranno solo far battute sui grassi, purché maschi – se sono femmine si configura il fat-shaming.

 

Viene una gran voglia di rivedere il monologo dove Lenny Bruce scruta il suo pubblico, ricostruito in “Lenny” di Bob Fosse con Dustin Hoffman, anno 1974 (il film, il vero Lenny è morto nel 1966, di overdose, non era cucciolone come lo dipinge la serie “La fantastica signora Maisel” di Amy Sherman-Palladino, perdoniamo perché sta per arrivare la seconda stagione). “Vedo un lurido negro, laggiù?” attacca il comico, microfono in mano. “E c’è un altro negro laggiù…” Ripete la parola con la enne fino allo sfinimento, per passare al “giudìo usuraio” – traduzione italiana, ebbene sì, l’originale era “kyke”. Poi arrivano gli “spagnoli unti” (“spic”) e gli “spaghetti” (“wop”).

 

 

Hanno proposto di levare la parola “nigger” dai romanzi di Mark Twain, o in alternativa di levare i libri di Twain dalle biblioteche

Negli anni 50 e 60 Lenny Bruce veniva arrestato per oscenità. Oggi verrebbe messo alla gogna su Facebook, su Twitter, su qualsiasi altro social, faccia o no uso illecito dei dati che gli regaliamo (il cartaceo era superiore: i test della personalità sui settimanali femminili, in spiaggia, non restavano in eterno a testimoniare la nostra idiozia). Negli anni 50 e 60, gli intellettuali firmavano appelli a suo favore. In cima alla lista Woody Allen, che ora non trova nessuno che lo difende. Anzi, è una nobile gara per scovare nei suoi film tracce di ignobili perversioni. Seguivano i nomi di Bob Dylan, Allen Ginsberg, Saul Bellow, Norman Mailer. In televisione, nel 1959, fu presentato come “il comico più scioccante di tutti i tempi”. Era una medaglia, non una condanna.

 

Come finiva il monologo degli insulti? Finiva con Lenny Bruce che invitava a ripetere fino allo sfinimento parolacce e stereotipi, perché è la repressione – e noi possiamo aggiungere anche l’eufemismo di certe formule – a far diventare certe parole violente e insultanti. Ed è puntualmente accaduto. “Nigger” rischia di essere espunto da un classico come “Le avventure di Huckleberry Finn”, mentre i giovanotti afro-americani (giusto così? con il trattino? anche di questo si discute) se lo dicono tra di loro in allegria.

I comici non sono al mondo per risanare la società, neppure per migliorarla. Fa bene Matt Groening a non cospargersi il capo di cenere – e a sperare in un pubblico che sappia cogliere le battute. Per esempio, nell’episodio-profezia del 2000 con Lisa alla Casa Bianca, che dice “l’ex presidente Trump ci ha lasciato un debito colossale”, la battuta non era su Trump. Era “la prima presidentessa donna eterosessuale degli Stati Uniti” (signore, prendete nota della dirittura d’arrivo)

Come finisce invece l’episodio incriminato? (doppiamente, Apu e i suoi si aspettavano scuse&pentimento&nonlofaròmaipiù). Non viene citato perché non fa titolo. I professori universitari convocati da Lisa spiegano a Marge la grossezza del granchio preso. La scrittrice – prima ritratta come una signorina britannica che pota le rose in giardino – era in realtà una lesbica che mai volle sposarsi e sfidò il mondo vivendo a capriccio suo. Quindi entra nella categoria “minoranze strapazzate”, e leggerla non è più vietato. Diventa obbligatorio.

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