Woody Allen (foto LaPresse)

“Papà non ha stuprato Dylan”. Il figlio di Woody Allen contro Mia Farrow

Simonetta Sciandivasci

La difesa sul suo blog. Ma è un maschio: non gli crederanno

"Cara mamma, immagino che lancerai una campagna per screditarmi pubblicamente, ma è un peso che sono disposto a sopportare". Così, Moses Farrow, figlio adottivo di Mia Farrow e Woody Allen, ha concluso il suo ritratto di famiglia in un interno, la sua ricostruzione delle pressioni, i tormenti, le ripicche, le bugie, i plagi estenuanti cui sua madre ha sottoposto, per anni, lui e i suoi fratelli. Lo ha fatto per dire una cosa che ha già detto altre volte, mai spiegandola così bene, e mettendoci dentro tutto, anche il sangue: mio padre non ha violentato mia sorella Dylan, e visto che non vi sono mai bastate, in questi anni, e soprattutto in questi mesi, le perizie psichiatriche e le sentenze che lo hanno attestato, ora che le “isterie” degli ultimi mesi mi paiono lievemente dome – lo ha scritto sul serio, che ottimista utopista – vi dico com’è andata. Migliaia di battute pubblicate non sul New York Times, ma su un miserrimo blog personale: questo non è solo un dettaglio, ma il punto (uno dei), visto che, su Allen, sono anni che s’inveisce accusandolo di aver corrotto avvocati ebrei e giornalisti (anche episcopali), per garantirsi immunità e carriera. I diari del presunto stupro di Dylan Farrow, invece, sono sempre finiti su testate internazionali (a proposito di parità).

 

Andiamo con ordine. Ricognizione dell’albero genealogico di Mia, ove risultano: un padre alcolizzato, un fratello in prigione per molestie su minori e un altro morto suicida. Un quadro che gli intelligenti chiamerebbero famiglia disfuzionale, dicitura che Mia Farrow, però, ha sempre e solo accalappiato a quella che aveva creato con Woody, il mostro che l’aveva tradita con Soon-Yi, sua figlia adottiva (maggiorenne all’epoca dei fatti, ora sua moglie). “A mia madre interessava che sembrassimo una famiglia felice ed esemplare, per questo adottò molti bambini, alcuni anche disabili”: premessa per breve memoir delle violenze, anche corporali e spesso pesanti, cui Mia li sottoponeva. La figlia Tam (vietnamita, cieca, depressa – per Mia “solo una ragazzina lunatica”), si è ammazzata a ventuno anni; il figlio Thaddeus si è sparato; la figlia Lark è morta di Aids. I lavaggi di cervello e le sevizie psicologiche pare facessero parte della manutenzione ordinaria di mamma Mia e crebbero fino alla psicosi dopo il fattaccio Woody-Soon: tutta la famiglia doveva, allora, aiutarla a incastrare il maiale.

 

E veniamo allo stupro: è il 4 agosto del ‘92, Mia lascia i bambini con Woody ed esce, raccomandandosi con ciascuno di loro di controllare il papà. In casa ci sono anche altri adulti e qualche tata. A un certo punto, stando al racconto di Dylan pubblicato dal New York Times nel 2014, Woody la porta in soffitta, le dice di sdraiarsi a pancia in giù e di giocare con un trenino elettrico; la violenta – secondo Moses, quella soffitta era impraticabile, piena di cacca di topo e uccelli, immondizia, robaccia, e nessun trenino. Mia Farrow rientra a casa con un suo amico il quale, poche ore dopo, le rivela che la sua tata, rimasta in casa, ha visto Dylan guardare la tv con la testa posata in grembo a suo padre: tanto basta per convincere Mia che ci sia stata violenza. Tutto cambia per sempre. Pochi mesi dopo, una delle tate si licenzia perché Mia Farrow vuole obbligarla a testimoniare il falso. Durante tutto il processo, la madre dice ai figli che il padre ha fatto cose terribili e loro devono aiutarla a dimostrarlo se vogliono che la famiglia resti unita: “Feci la mia parte anch’io e dissi pubblicamente che mio padre mi aveva deluso: è il peggiore rimpianto che ho. Dissi poco dopo la verità agli psicologi, raccontai che mi sentivo bloccato tra i miei genitori e Mia mi costrinse a ritrattare, accusandomi di aver rovinato il suo caso: ancora una volta, mi obbligò a mostrarle la mia lealtà”, scrive Moses. Dei plagi sui figli, c’è traccia anche nelle perizie dei dottori.

 

A poche settimane dal caso Weinstein, Dylan ha scritto un pezzo sul Los Angeles Times, rimproverando tutta Hollywood per aver continuato a lavorare con suo padre, pur sapendo di cosa si fosse macchiato. Molti attori, allora, visto il clima, hanno dichiarato che non l’avrebbero più fatto. La verità processuale ha smesso di contare e le parole di Moses non hanno troppa speranza di ricordare almeno che, in questa storia interminabile, sfiancante, spaventosa, nella quale non si può non dubitare di tutti, quella verità, tuttavia, esiste. Dopotutto, le sue sono parole scritte da un maschio per difendere un altro maschio. Ed è alle donne che si deve credere.

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