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La critica

Odio delle macchine da parte di chi ne è schiavo. Se ci fosse, sarebbe rassicurante

Alfonso Berardinelli

Più l’intelligenza umana delegherà le sue funzioni a quella artificiale, e più queste funzioni si indeboliranno fino ad atrofizzarsi

Non è facile togliere ai discorsi sull’intelligenza artificiale e la robotica il protagonismo culturale che si sono conquistati in questi ultimi tempi. Ma si potrebbe anche ricordare che in passato ci sono stati periodi nei quali, grossomodo, gli stessi temi erano all’ordine del giorno. Il Novecento, secolo di straordinarie innovazioni tecnico-scientifiche e di eccezionali catastrofi, dal mitico affondamento del Titanic nel 1912 all’inferno di Hiroshima e Nagasaki, ci ha offerto molte riflessioni sull’idea di progresso, sull’industria bellica e sulla “civiltà delle macchine”. Oggi siamo a un’ulteriore accelerazione delle “modernizzazioni” tra informatica e macchine intelligenti.

Ho letto su questo giornale alcuni articoli in proposito. Mi manca una sufficiente competenza per dare giudizi obiettivi e precisi, o meglio per offrire prove certe di alcune mie opinioni sulle prossime e già in atto “conseguenze del progresso”. Possono aiutarmi in parte l’immaginazione e un po’ di senso comune da umanista anarcoide e scrittore ibrido. Quindi mi applicherò brevemente a seguire il principio socratico dell’“esaminare i discorsi” altrui. La prima cosa che ho da dire è che il problema dell’intelligenza artificiale che prenderà il posto (non tutto) di quella naturale e culturale umana ha almeno due facce: quella dell’efficienza delle prestazioni intellettuali d’avanguardia e quella dell’effetto sulla mente, sulla psiche, sulla socialità (è quotidiano lo spettacolo di una umanità che vive tenendo in mano uno smartphone). Se esamino gli articoli di Franco Lo Piparo (“Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana”, 19 maggio), di Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi (“Niente panico, ChatGPT non diventerà mai intelligente”, 4 giugno) e di Pasquale Cirillo (“L’intelligenza artificiale è positiva, ma la transizione sarà dolorosa”, 25 maggio) vedo che le argomentazioni antiallarmistiche sono fondate su un apriori secondo cui allarme e preoccupazione nascono da difetti di logica e da difetti emotivi e caratteriali. Ci si preoccupa cioè del futuro solo se “si ama avere paura”, si pecca di superstizione e si attribuiscono alle macchine intelligenti (come agli animali) qualità umane. In conclusione, o meglio fin da subito, si sbaglia chi fa previsioni negative perché coltiva errori cognitivi e difetti psichici. Il primo comandamento degli ottimisti è invece “mai allarmarsi”, mai pensare al peggio, dato che non ci sono ora e non ci sono state nel passato storico ragioni reali e sufficienti per vedere i lati oscuri, negativi o imprevisti del progresso tecnico. Gli autori di quegli articoli tendono a presentare se stessi come impeccabili logici e uomini dai nervi saldi, che guardano alla realtà senza pregiudizi e non si perdono in tenebrose fantasticherie. Per loro l’ottimista è sano di mente e affidabile, il pessimista è un ansioso prigioniero del proprio io e basta. Parlano come rappresentanti del pensiero scientifico che non sbaglia mai (un’idea, questa, sbagliata di scienza) e migliora immancabilmente la condizione umana, società e individui, da ogni punto di vista. (Ma questo non è credere di avere in tasca la logica della storia?). Occultano gli attriti tra scienza e morale che però molti scienziati non hanno mai scavalcato. Nella storia della cultura occidentale comunque non ci sono soltanto Archimede, Copernico, Newton, Darwin e Planck, ci sono anche Montaigne, Swift, Hume, Freud e Kafka.

Lo Piparo poneva il problema in modo da risolverlo in anticipo, con l’affermazione che l’intelligenza artificiale non “assorbirà” mai totalmente quella umana. Ovviamente questo non avverrà, solo che la questione è un’altra: in che misura e con quali prevedibili effetti l’uso generalizzato e intensivo di macchine intelligenti influenzerà la mente, la psicologia e i comportamenti umani. Più l’intelligenza umana delegherà le sue funzioni a quella artificiale, e più queste funzioni si indeboliranno fino ad atrofizzarsi. Inoltre gli attuali tecnoburocrati li avremo di fronte come macchine pensanti e decisionistiche inconfutabili, sottratte alla critica morale e sociale. Il dogma tecnico sta già sostituendo quello religioso di una volta. Le macchine sono sempre più un prodotto umano che l’umanità non osa più giudicare, dato che lo sviluppo tecnologico di qualunque tipo è considerato una “seconda natura”.

Il discorso di Corbellini e Mingardi procede in modo analogo. Punto di partenza: chi non condivide le loro previsioni positive ha torto in partenza perché teme nientedimeno che “l’estinzione della razza umana”, è “ossessionato dalla fine del mondo” ma solo perché teme la fine del proprio mondo (mi chiedo chi possa tranquillamente disprezzarlo). Ma sorvoliamo su questo. Gli allarmisti sopravvaluterebbero i rischi della IA perché tutti noi amiamo avere paura. Ma sarà vero? Tutti esclusi loro due? Secondo i due autori, chi teme i rischi vive nella fantascienza e nelle “speculazioni etiche” (a cui loro sono insensibili?) dato che immaginano che “queste macchine diventino coscienti, autocoscienti, senzienti e minacciose per la sopravvivenza della specie”. Strano procedimento retorico: si attribuiscono all’interlocutore dissenziente fantasticherie apocalittiche e poi lo si accusano di averle. Ma il problema è ancora una volta un altro: non è nella favoletta della macchina malintenzionata che “vuole” farci fuori. E’ che ogni strumento tecnico condiziona e induce comportamenti per i quali ci sia bisogno di usarlo. Se compro un’auto che va a trecento chilometri l’ora sarò tentato di usarla a quella velocità. Se porto in tasca un’arma diventa più probabile che me ne serva. Il navigatore può fare comodo, ma rende superflua la mia attenzione e capacità di osservare e memorizzare ambienti e percorsi: non ci sono vantaggi senza perdite.

L’articolo più equilibrato e più immune da retorica edificante è quello di Pasquale Cirillo. Avverte perfino il lettore che la prima colonna di stampa che ha letto è stata scritta automaticamente da ChatGPT. Segue un bell’elenco di regali che la tecnica ci farà in vari campi: medicina, trasporti, scienza, traduzioni automatiche, ecc. Ma più avanti avverte: “Nei prossimi anni la perdita di posti di lavoro che ci aspetta sarà molto particolare e le conseguenze sociali e politiche rischiano di essere esplosive. Per la prima volta, vedremo quello che esagerando possiamo chiamare il luddismo dei professionisti”, perché “riconvertirsi una volta perso il lavoro diventerà più difficile. Richiederà ingenti investimenti in formazione e fatica”. Già, luddismo. Odio e distruzione delle macchine da parte di chi ne è vittima e schiavo, come nella prima rivoluzione industriale. Non credo che ci sarà, ma se ci fosse, sarebbe rassicurante. Scommetto che gli apologeti della tecnica ne avrebbero una paura tale da immaginare una fine del mondo.

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