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Bandire Huawei rivela la paura di Washington di avere perso l'egemonia tecnologica

Mariarosaria Marchesano

Unico a sollevare il problema, Donald Trump non accetta la supremazia di un’economia di stato ma inguaia anche l’America. Girotondo di esperti

Milano. Fa bene il presidente americano Donald Trump a mettere al bando Huawei se in gioco c’è la sicurezza nazionale? Da ieri l’offensiva commerciale lanciata dalla Casa Bianca a Pechino è aumentata di intensità. Trump ha giustificato la mossa di vietare di fatto alle aziende americane di fare affari con il colosso cinese con una sorta di emergenza tecnologica nazionale, anche se c’è chi pensa che in realtà sia stato semplicemente infastidito dai tentativi dei cinesi di modificare a loro vantaggio il negoziato in corso sull’imposizione di dazi commerciali. In ogni caso, Trump è riuscito a spostare l’attenzione sulla sicurezza nazionale. E facendo questo ha mostrato anche di temere che Huawei si possa rivelare come un “cavallo di Troia”.

 

Allora, ha ragione Trump a difendere gli Stati Uniti da presunti attacchi tecnologici esterni oppure esagera avendo ben chiaro il suo tornaconto e meno quello delle ripercussioni sul piano politico, economico e commerciale mondiale? “La mossa di Trump ha una duplice valenza – dice al Foglio l’economista dell’Università Bocconi Francesco Giavazzi – La prima è di tipo strategico e serve per mettere l’America in una posizione di vantaggio nel negoziato commerciale con la Cina. La seconda ha lo scopo di lanciare un nuovo segnale all’America in un momento in cui il partito democratico, più di quello repubblicano, sta esprimendo una crescente preoccupazione per il tema della sicurezza. E allora è come se Trump stesse ribadendo alla Cina di non poter accettare un confronto sul piano tecnologico con un paese in cui vige la supremazia dello stato nell’economia. O, se vogliamo metterla in modo ancora più semplice, sta dicendo di non volere che il governo cinese e il suo Partito comunista possano arrivare, un giorno, a controllare i dati dei consumatori americani”.

 

Da questo punto vista, per Giavazzi, la situazione non è troppo lontana dalla guerra fredda tra Stati Uniti e Unione sovietica, solo che al posto dei carri armati sono schierate le reti del 5G, settore in cui gli Stati Uniti scontano un forte ritardo, per non parlare dell’Europa che in questa partita finora non ha preso posizione. Ieri, però, si è espresso il presidente francese, Emmanuel Macron, dicendo che “non è appropriato lanciare una guerra commerciale o tecnologica contro qualsiasi paese” perché non è il modo migliore per difendere la sicurezza nazionale, per sviluppare il proprio ecosistema e avere un mondo di cooperazioni e di minori tensioni. Macron non ha detto, però, come il problema si potrebbe affrontare.

 

Gli asset strategici di un paese andrebbero tutelati con una governance sulla sicurezza che preveda un meccanismo di certificazione degli apparati e dei prodotti che vengono acquistati dall’esterno e il monitoraggio dei dati che scorrono nella reti di telecomunicazione – dice Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano con delega ai rapporti con la Cina – Non mi pare ci siano prove di spionaggio e gli Stati Uniti avrebbero ragione a difendersi se ravvisassero un pericolo, ma la risposta di Trump non solo non risolve il problema quanto rischia di risultare dannosa per la stessa economia americana che dice di voler proteggere. La verità è che questi processi tecnologici si possono governare, ma finora abbiamo sottovalutato la Cina che spende in ricerca e sviluppo più di quanto fanno tutti gli stati dell’Unione europea messi insieme”.

 

Il punto è proprio questo: l’economia cinese, sostenuta da grandi risorse pubbliche, è partita alla conquista dell’occidente dove c’è libero mercato e i bilanci degli stati sono sempre più sotto pressione per l’aumento del debito pubblico. Una lotta ad armi impari, come direbbe Trump. “Sta di fatto che negli ultimi dieci anni il paese asiatico ha incubato aziende che sono diventate dei colossi tecnologici mentre noi pensavamo che continuassero a produrre accendini – continua Noci – l’Europa ha bisogno delle reti 5G e ne ha bisogno anche l’Italia, questo non vuol dire che dobbiamo diventare succubi di qualche soggetto esterno, ma dobbiamo porci il problema su come governare l’ingresso di queste tecnologie”.

 

In realtà, dall’Europa la Casa Bianca si attende qualche segnale in più, vorrebbe capire come si posiziona in quella che sta diventando “una guerra tra sistemi e tra civiltà”, come la definisce Alessia Amighini, analista del centro di studi geopolitico Ispi. “Occidente e oriente si confrontano sul piano tecnologico, ma c’è molto di più perché i reciproci sistemi politici ed economici hanno radici diverse e Trump, anche se in modo sbagliato, è stato l’unico a porre il problema. Finora l’Europa è stata assente in questo dibattito, distratta da suoi problemi interni, ma c’è il rischio che si svegli troppo tardi, quando il gioco di potere è arrivato al limite. Un tema che, per esempio, si dovrebbe affrontare al livello di Unione europea è quello delle fusioni. E giusto o meno dar vita a campioni europei nel settore delle telecomunicazioni? La normativa comune antitrust impedisce di andare oltre una certa soglia dimensionale, ma questo spunta le armi alla capacità competitiva delle aziende”.

 

  

In questa fase l’Europa, proprio perché concentrata sui suoi problemi in un contesto di rallentamento economico sembra guardare al conflitto tra Stati Uniti e Cina con l’unica preoccupazione di non venirne troppo coinvolta. Ieri anche i mercati hanno rifiatato quando è arrivata la notizia che Washington ha rinviato a novembre l’applicazione dei nuovi dazi sulle importazioni di auto da Unione europea e Giappone. Mossa interpretata da alcuni come un modo per rasserenare i rapporti commerciali con paesi alleati mentre si inasprisce il conflitto con Pechino. “Interpretazione sbagliata – conclude Giavazzi – alla Casa Bianca vige la regola che si affronta un problema alla volta. Non a caso il fronte con la Cina si è riaperto dopo che è stato archiviata la questione con il Messico. E non c’è da illudersi: verrà il turno anche dell’Europa”.

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