Tifosi tedeschi affollano gli spalti del Westfalenstadion durante la partita tra Borussia Dortmund e Eintracht di Francoforte (foto LaPresse)

Quando eravamo innocenti

Giovanni Francesio

Oggi le immagini di una curva piena ci fanno paura. Requiem per un mondo che per salvarsi dovrà cambiare

In questi giorni tutti uguali, giorni che non sono più giorni, ma settimane, e che presto diventeranno mesi, si alternano gli stati d’animo e le prospettive, gli umori e i modi in cui immaginiamo il futuro. Ci sono momenti in cui prevale l’ottimismo, se non della volontà, almeno del desiderio, in cui ci sentiamo dentro un periodo durissimo, sì, ma transitorio, e riusciamo dunque a immaginarci un ritorno alla vita “di prima”; e altri in cui invece il pessimismo e lo sconforto della ragione sono talmente nitidi da impedirci anche solo di immaginarcelo, il futuro, e di immaginare che potremo tornare a fare le cose che amavamo.
E noi, che amavamo così tanto lo stadio e il tifo, se pensiamo a quel mondo, proprio non riusciamo a impedire al secondo stato d’animo di prevalere.

 

Perché anche quando l’emergenza finirà, certo non finiranno le restrizioni per gli “assembramenti ludici” e i “contatti umani non necessari”, e quando, chissà quando, finiranno le restrizioni, resteranno paure e diffidenze, che rischiano di radicarsi in noi al punto da diventare strutturali e insuperabili.

 

Inutile dilungarsi sulla storia, e sul significato sociale, del tifo sportivo moderno.

 

Il rito laico dello stadio ha segnato, e fatto sognare, intere generazioni in ogni parte del pianeta, e come tutti i riti ha, aveva, le sue caratteristiche e le sue regole, che sono, oltre ovviamente alla comune passione identitaria, la condivisione dello spazio, la vicinanza fisica, e la fiducia negli altri.

 

Ma oggi, le immagini della curva di uno stadio, viste con questi occhi nuovi che non avremmo mai voluto avere, hanno qualcosa di sinistro, di minaccioso. Ci fa effetto vedere in un film un bacio, figuriamoci una curva gremita di migliaia di persone, attaccate, abbracciate, con le bocche spalancate, urlanti, nel canto e nell’esultanza. Quando mai tornerà a sembrarci normale, psicologicamente sopportabile, socialmente accettabile, stare insieme a così tanta gente in uno spazio angusto e promiscuo?

 

E a proposito della fiducia, che si stabilisce immediatamente, spontaneamente, all’interno di uno stadio, sarà molto, molto difficile, per persone che oggi si sono abituate a cambiare marciapiede quando intravedono qualcuno a venti metri di distanza, tornare a quella fratellanza fisica tipica di una gradinata, che portava a un continuo scambio, con gente mai vista prima, di parole, abbracci, sigarette, birre, morsi di panini. No, è meglio dirselo, non sarà più possibile, per mesi, forse anni, e poi chissà, perché le cose, quando si fermano, non sempre si interrompono. A volte finiscono e basta, e non c’è modo di farle ripartire.

 

“Il coronavirus sembra averci studiato da vicino”, ha scritto Simonetta Sciandivasci su questo giornale. Per i tifosi è forse persino più vero che per altri, perché non si può non pensare con strazio rabbioso al fatto che è possibile, forse probabile, che Atalanta-Valencia di Champions a San Siro sia stato uno dei momenti che hanno aiutato il virus a diffondersi nel bergamasco, e poi a falciare migliaia di vite. Il male, per fare più male, si è travestito da festa, da grande festa popolare: invece è stato solo un imbroglio cattivo, solo un modo per colpirci meglio. Era il 19 febbraio, due giorni dopo avremmo saputo dei primi contagiati in Lombardia. Ripensare oggi a cosa significava quella partita per la gente di Bergamo, ripensare a quell’esodo allegro, alle giustificazioni gioiose che i genitori hanno scritto quel giorno sui diari dei figli che non andavano a scuola, perché dovevano partecipare a un momento storico della loro città, è, in una parola, insopportabile.

 

Questa non è una cosa che potremo mai dimenticare, e in tutti noi, anche quando sarà finita, anche quando non avremo più contagi, anche quando avremo trovato un vaccino, rimarrà, silenzioso ma vigile, il pensiero che come è successo una volta, potrebbe accadere di nuovo.

 

E non c’è soluzione, non c’è un altro modo: lo stadio non è il teatro, non è il cinema, non è una sala convegno, non è una diretta Facebook. Non si può andare allo stadio e tenere il metro di distanza, non si può tifare con la mascherina. E soprattutto lo stadio, come l’abbiamo conosciuto noi, non serve per guardare e basta, ma è un posto fatto per stare insieme agli altri, e questo non può avvenire se gli altri vengono percepiti come una minaccia.

 

Poco male, diranno dotti e sapienti: con tutti i drammi sanitari, sociali, economici e psicologici che la pandemia sta portando con sé, la scomparsa del tifo da stadio è l’ultimo dei pensieri. Anzi, ci sarà anche chi, comprensibilmente, ne sarà contento: niente più problemi di ordine pubblico, niente più ululati, niente più insulti, niente più striscioni, niente più ultras.

 

Ma noi no. Noi non siamo affatto contenti. Primo perché uno stadio vuoto simboleggia la fine della “nostra” epoca molto più efficacemente di tante altre immagini, e annuncia il passaggio a una società, purtroppo non più distopica, di relazioni distanti e rarefatte e immateriali; e poi perché già ora ci mancano tremendamente quelle ore di libertà insieme agli altri, quello slancio che ci faceva essere più di noi stessi, non solo spettatori, ma attori, e ci faceva essere diversi e migliori, come accadeva a Jean-Baptiste Clamence, il protagonista de La caduta di Albert Camus: “Ancora oggi le partite della domenica in uno stadio affollato, e il palco di un teatro, che ho amato con una passione senza pari, sono gli unici posti al mondo in cui mi sento innocente”.

 

Ecco, anche noi eravamo così, allo stadio: innocenti. E come tutti gli innocenti, non sapevamo di esserlo.

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