La generazione della ripartenza
Bistrattati dalla crisi del 2008, i millennial ora dovranno affrontare la devastazione economica portata dal coronavirus. Ci sono ragioni per disperare, ma forse saranno loro a ricostruire il mondo
Il primo problema dei millennial, almeno dal punto di vista mediatico, sta in quel nome così accattivante. La generazione X, che è quella venuta prima dei millennial, e la generazione Z, che è quella venuta dopo, hanno nomi noiosi. Ma “millennial” è un termine perfetto, futuristico, giornalisticamente spendibile. E’ da un decennio ormai che parliamo dei millennial come di giovani rampanti, e si è continuato a farlo anche in questi giorni di coronavirus, in cui sono apparsi articoli sulle tante attività ludiche dei millennial in quarantena. Ecco, no. I millennial ormai hanno in buona parte superato i trent’anni, alcuni sfiorano i quaranta, hanno tutti un lavoro (chi ce l’ha) e molti di loro hanno dei figli. Qualcuno ha acceso un mutuo, qualcun altro ha aperto un’attività, alcuni iniziano a mettere su la pancetta e a perdere i capelli. Insomma, ormai i millennial di rampante non hanno un bel niente. Non solo. Proprio in questi giorni c’è chi ha cominciato a dire che i millennial sono la generazione più sfortunata da cent’anni a questa parte.
Hanno in buona parte superato i trent’anni, alcuni sfiorano i quaranta, iniziano a mettere su la pancetta e a perdere i capelli
Prima di continuare, ecco qui sotto uno specchietto su come definire le ultime generazioni. Cercando un po’ scoprirete che delineare le date d’inizio e di fine di una generazione di persone è un lavoro decisamente poco scientifico, e su cos’è una generazione si sono fatti molti seminari e scritti molti libri, ma per amor di convenzione potremmo dire che:
– i baby boomer sono i nati tra il 1945 e il 1965;
– la generazione X comprende i nati tra il 1965 e il 1980;
– i millennial sono i nati tra il 1980 e il 1995;
– la generazione Z comprende i nati tra il 1995 e il 2010.
Dicevamo, la generazione più sfortunata degli ultimi cent’anni. Questo concetto lo ha spiegato con gran chiarezza un articolo di Annie Lowrey (autrice millennial, nata nel 1984) uscito qualche giorno fa sull’Atlantic. I millennial, scrive Lowrey, sono entrati nel mondo del lavoro durante la peggiore crisi dai tempi della Grande depressione. Era il 2008-2010 e noi millennial ci stavamo laureando all’università, diplomando alla scuola superiore, cercavamo i primi lavori e i primi stage, e davanti a noi l’economia globale era appena crollata. “Gravati di debiti, senza la possibilità di accumulare risparmi, e bloccati con lavori con pochi benefit e nessuno sbocco, i millennial non hanno mai ottenuto la sicurezza finanziaria di cui avevano goduto i loro genitori, i loro nonni e perfino i loro fratelli maggiori”. Poi, proprio nel momento in cui i millennial stavano cercando di tirarsi su e, passati ormai i trenta, entravano in quello che dovrebbe essere il picco della loro carriera, quando gli stipendi aumentano e le responsabilità si moltiplicano (e anche quando si mette su famiglia e si comincia a dare il proprio contributo alla società), è arrivata la crisi economica scatenata dal coronavirus, che probabilmente sarà più distruttiva della Grande depressione del 1929. Una generazione vulnerabile e con i fondamentali economici debolissimi viene colpita per due volte in 12 anni da crisi economiche devastanti. E’ quasi ironico. Il risultato è che ormai “è praticamente sicuro che [i millennial] saranno la prima generazione nella storia americana moderna a essere più povera dei propri genitori”. Possiamo usare lo stesso livello di certezza per i millennial italiani ed europei.
Ci sono due ragioni per sperare: un libro scritto da una millennial americana e un precedente storico molto interessante
C’è un argomento economico piuttosto forte a sostegno di questa teoria. La crisi finanziaria del 2008-2010 ha colpito i millennial più duramente di chiunque altro, per due ragioni: erano il soggetto più fragile ed erano il soggetto meno rappresentato. Ora penserete: ecco che inizia la solita lagna liberal-socialista e parte il pippone sulle diseguaglianze economiche e su come lo stato debba aiutare i suoi giovani con tutto il coté di Piketty e Mazzucato. No. Partiamo piuttosto da Joseph C. Sternberg, autore ed editorialista del Wall Street Journal, che si autodefinisce un “free-market conservative”, un conservatore e fautore del libero mercato. Sternberg è ben lontano dal cliché del millennial che mangia biologico e beve birre artigianali, eppure l’anno scorso ha pubblicato un libro intitolato: “The Theft of a Decade: How the Baby Boomers Stole the Millennials’ Economic Future”. Traduciamo: Il furto di un decennio: così i baby boomer hanno rubato il futuro economico dei millennial. Il libro è denso di dati ed è orientato a un pubblico americano, ma pone alcune argomentazioni interessanti e valide per tutto l’occidente. Secondo Sternberg, non soltanto i millennial si sono affacciati sul mondo del lavoro nel pieno di una crisi economica gravissima – questo non è così raro, anche i baby boomer si sono laureati nel pieno della crisi degli anni Settanta e l’hanno superata. Il problema è che i millennial, quando è stato il loro momento di affrontare la crisi, si sono trovati davanti un piano inclinato. Una resistentissima classe dirigente tutta composta da boomer (Bill Clinton è un baby boomer, così come George Bush e Barack Obama) ha cambiato le regole del gioco a proprio favore. Cercare di superare una crisi particolarmente dura come è stata quella del 2008, in cui i tassi di occupazione sono tornati al livello precedente soltanto dopo un decennio, e farlo in salita nel mezzo di condizioni avverse ha reso i millennial vulnerabili.
Secondo una ricerca pubblicata dal New York Times e riferita agli Stati Uniti, quando la crisi del 2008 è cominciata i cugini più grandi appartenenti alla generazione X avevano in media il doppio degli asset totali rispetto a quanti ne abbiano i millennial oggi. Oggi, invece, i 40-50enni della generazione X hanno quattro volte gli asset e due volte i risparmi dei millennial. Avere anche soltanto dieci anni di più dei millennial significa aver avuto le spalle più larghe per sostenere la crisi che c’è stata e anche quella che verrà.
La situazione non migliora nemmeno se guardiamo all’Italia: secondo un rapporto Censis pubblicato alla fine dell’anno scorso, negli ultimi 25 anni i giovani italiani con meno di 35 anni hanno perso il 34,6 per cento della loro ricchezza in termini reali, mentre la ricchezza degli anziani sopra i 65 anni è aumentata del 77 per cento. Secondo lo studio “Gli immobili in Italia 2019” pubblicato pochi mesi fa dall’Agenzia delle Entrate, appena il 6 per cento dei proprietari di casa italiani ha un’età non superiore ai 35 anni, mentre la gran parte dei proprietari di casa (56 per cento) ha tra i 35 e i 65 anni. Il dato si basa su un censimento del patrimonio immobiliare italiano fatto nel 2016, per cui è probabile che quel 6 per cento sia cresciuto di un po’, ma il quadro resta grave. Secondo un sondaggio di Tecnocasa del 2018, inoltre, i giovani che acquistano casa sono aiutati dai genitori “in maniera importante e in alcuni casi totalmente”. Se mamma e papà non ti comprano l’appartamento, da solo non ce la fai.
I millennial sono rimasti vulnerabili dopo la crisi del 2008, e adesso dovranno affrontare la recessione da Covid-19
Sternberg nota un altro tema interessante: i millennial non hanno più tanto tempo. Hanno consumato anni preziosi in cui non sono riusciti ad avanzare granché nel mercato del lavoro. E a forza di considerarli giovani virgulti, ci siamo dimenticati che i millennial più anziani cominceranno ad andare in pensione attorno al 2050: abbiamo trent’anni di attività lavorativa per mettere le cose a posto, ed ecco che proprio quando avevamo cominciato a crederci è arrivato il coronavirus.
Secondo il Fondo monetario internazionale, “è molto probabile che quest’anno l’economia globale subirà la peggiore recessione dai tempi della Grande depressione”. Le economie dei paesi sviluppati stanno già crollando, con l’Italia in testa (meno 9,1 per cento del pil quest’anno), e chi spera in una crisi a “V”, cioè in un crollo seguito da un recupero immediato, si illude: l’aumento incredibile della disoccupazione e la degradazione delle catene della produzione globale indicano che la crisi è qui per rimanere almeno per qualche anno. Chi sarà più colpito dalla crisi? I vulnerabili. E qual è la generazione più vulnerabile? Lo sappiamo.
Qui in Europa, dove abbiamo la cassa integrazione e il welfare state, è tutto più rallentato, ma negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro è meno protetto, hanno già cominciato a fare i conti: nelle ultime quattro settimane 22 milioni di americani hanno perso il lavoro. Secondo una ricerca del gruppo Data for Progress citata dall’Atlantic il 52 per cento di chi ha meno di 45 anni è stato licenziato, si è visto ridurre le sue ore o è stato messo in aspettativa non pagata. Un ulteriore 8 per cento teme che gli capiterà tra poco. Insomma, il 60 per cento degli under 45 americani è a rischio.
Secondo il Censis, gli under 35 hanno perso il 34 per cento della loro ricchezza, mentre gli over 65 l’hanno aumentata del 77 per cento
Questa situazione potrebbe ripetersi anche in Europa, specie negli stati del sud come l’Italia, dove la disoccupazione giovanile era già alta prima del virus. L’Economist di questa settimana scrive: “Per le generazioni più anziane, una recessione è come una buca in strada, la maggior parte ci guiderà sopra senza nemmeno forare la gomma. Ma per i giovani dell’Europa del sud è un baratro enorme da cui sarà difficile uscire fuori”. I millennial di recessioni ne hanno già subìta una, adesso arriva la seconda.
E dunque dobbiamo accettare l’idea di essere una generazione perduta, che deve rassegnarsi a non realizzare i propri desideri e la cui unica speranza in termini di benessere economico è ereditare dai genitori? Ci sono buone ragioni e molti dati per pensare che andrà così. Ma ci sono anche due ragioni per sperare che le cose migliorino.
La prima ragione è un libro, che è il miglior libro sui millennial uscito finora. Si chiama “Trick Mirror”, l’ha scritto l’autrice del New Yorker Jia Tolentino e sarà pubblicato in italiano da NR edizioni a giugno. Il libro è un insieme di saggi autobiografici in cui l’autrice (classe 1988) parlando di sé parla di una generazione intera, e citando i grandi fenomeni globali li riporta alla dimensione individuale. Alla fine ne esce un ritratto di millennial, e non è un ritratto disperante, anzi. I millennial sono molto consapevoli della propria condizione, ma sono anche molto preparati a combattere. Siamo la generazione più scolarizzata e istruita della storia, la preparazione è il nostro forte.
La seconda ragione è un precedente storico. Nel corso del Novecento c’è stata soltanto un’altra generazione che ha preso di petto ben due crisi devastanti. E’ quella che è nata tra il 1901 e il 1927, ed è la generazione che ha raggiunto la maturità assieme alla Grande depressione del ’29 e che poi ha combattuto la Seconda guerra mondiale. Non usiamo fonti sofisticate, ci basta Wikipedia in inglese: “Questa generazione ha trascorso gran parte della propria giovinezza in un momento di rapida innovazione tecnologica, con livelli crescenti di diseguaglianza globale e un’economia in crescita. Dopo il crollo dei mercati, questa generazione ha vissuto profonde agitazioni economiche e sociali, e infine la Seconda guerra mondiale”. E’ chiaro che non si può paragonare nemmeno per un secondo il coronavirus alla guerra, ma su tutto il resto sembra di sentir parlare dei millenial. Ecco una generazione ben più sfortunata di noi. Sono stati colpiti in pieno prima dalla grande crisi del ’29 e poi niente di meno che dalla Guerra mondiale. Ma alla fine questa generazione è stata chiamata la “Greatest generation”, la più grande di tutte.
Perché dopo la crisi e dopo la guerra è stata la generazione della ricostruzione, quella che ha raccolto le macerie e ha costruito il mondo in cui viviamo. Ancora non sappiamo per certo quante macerie lascerà il coronavirus, quante ce ne saranno lasciate da raccogliere. E certamente noi millennial abbiamo tante ragioni per disperare e deprimerci. Ma abbiamo anche un esempio da seguire.