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L'improvvida imposta sugli extraprofitti poteva forse essere evitata

Lorenzo Borga

I depositi bancari dei clienti sono pagati meno dello 0,3 per cento, mentre i tassi dei nuovi mutui, come è noto, hanno superato il 4. La norma sulla banche è stata scritta male e annunciata peggio,ma anche gli istituti hanno le loro responsabilità

La tassa sui cosiddetti “extraprofitti” bancari è stata scritta male e annunciata peggio. Ma il governo non ha torto quando sostiene che le banche non hanno aggiornato i tassi di remunerazione dei conti correnti: in Italia, secondo i dati della Bce, i depositi bancari dei clienti sono pagati meno dello 0,3 per cento, mentre i tassi dei nuovi mutui, come è noto, hanno superato il 4. Va ricordato che i conti correnti della clientela sono un vero e proprio prestito che i correntisti offrono all’istituto di credito: un prestito che la banca può utilizzare come preferisce, con il solo limite che deve restituirlo nel momento stesso in cui il cliente lo richiede (a differenza di quanto accade con i conti di deposito). Questa impostazione è contestata dal management dei principali istituti, secondo cui i conti correnti rappresentano un servizio alla clientela, e come tali vanno pagati dai correntisti.

Oggi in effetti non si può fare a meno di un conto corrente, banalmente per ricevere lo stipendio dal proprio datore di lavoro: e servizi come questo, come gli strumenti di pagamento, vengono pagati dalla clientela attraverso commissioni, talvolta molto salate. Gli ultimi dati ufficiali di Banca d’Italia riportano una spesa media annua a cliente di quasi 100 euro. Per di più, se anche considerassimo il conto corrente un servizio, ciò non toglie che i soldi – quando depositati in banca – escano dalla disponibilità immediata dei clienti ed entrino in quella degli istituti di credito, che possono prestarli, investirli o depositarli a loro volta presso la Banca centrale europea. Non è un caso che la Bce paghi questi conti correnti delle banche private il 4 per cento, ben distante dallo 0,26 per cento con cui gli istituti remunerano i clienti italiani. Con un semplice giroconto a rischio zero (a meno di non tenere in considerazione un fallimento della zona Euro) gli istituti possono così guadagnare una somma vicina al 4 per cento attraverso il capitale versato dai clienti.

Non c’è da stupirsi: così funziona il settore creditizio da quando è nato quasi un millennio fa: farsi prestare denaro per offrire credito a propria volta, assumendosi un rischio e ricevendo una remunerazione per questo. Fino a quando il denaro è stato sostanzialmente a costo zero – se non negativo – non c’era nulla di strano a prestare denaro alla banca senza riceverne nulla in cambio. Con quei soldi l’istituto non avrebbe potuto ricevere il 4 per cento della Bce, e l’alternativa dell’investimento in titolo di stato non allettava nessun correntista visti i tassi di interesse a zero. Ma oggi il mondo è cambiato (o meglio, è tornato come lo conoscevamo prima dell’era dei tassi azzerati): il denaro costa, l’inflazione erode il potere d’acquisto e prestare i propri risparmi allo stato invece che alle banche permette di incassare rendimenti interessanti. Perché dunque il settore non dovrebbe tornare a offrire i rendimenti che garantiva sui conti correnti prima del ribasso dei tassi? In Eurozona con un costo del denaro inferiore a quello attuale nel 2000 gli istituti pagavano sui conti correnti interessi tre volte più elevati di quelli attuali. In Italia sei volte di più.

Una risposta, per quanto timida, è arrivata dalla Banca d’Italia, che tenta fin da febbraio di dissuadere gli istituti a mantenere a zero i tassi di remunerazione sui depositi. Con una comunicazione del 15 febbraio ha sollecitato le banche a “rivedere le condizioni in senso favorevole ai clienti”. A luglio il governatore Visco proprio all’assemblea dell’Abi ha affermato che l’enorme liquidità depositata dagli italiani “può aver comportato una minore pressione concorrenziale tra le banche”. Un’ammissione a cui però non è seguita alcuna azione da parte dell’Antitrust italiano. In effetti solo la mossa di un competitor straniero, la spagnola Bbva che offre il 4 per cento di interesse, sembra aver rotto il muro degli istituti italiani che per ora non hanno offerto nulla di simile. Lo stesso problema si verifica anche in altri paesi europei, ma in forma minore. Il Financial Times ricorda infatti che l’Italia presenta un gap tra il rendimento di un bond a due anni e il tasso medio dei depositi superiore a Germania e Francia, e che solo l’11 per cento dei profitti dai rialzi dei tassi della Bce è stato trasferito alla clientela, contro un 20 per cento medio per l’Eurozona e il 43 per cento del Regno Unito.

L’improvvida imposta sugli extraprofitti bancari poteva insomma essere evitata se gli istituti fossero tornati alle remunerazioni precedenti al 2011. E con essa tutte le incognite per il risparmio e i prestiti che si porta appresso, denunciate dalla stessa Bce.

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