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Un turista diverso

Nicolas Bouvier e il fastidio per gli altri occidentali nelle “Cronache giapponesi”

Giulio Silvano

Il giornalista e fotografo svizzero racconta una diversa concezione del viaggiare: non solo il passaggio in un luogo ma anche la permanenza. Rimanere fino a quando qualcosa non rimane appiccicato

Che fastidio i turisti quando vengono nelle nostre città, ma ancora di più quando ce li troviamo vicini a fare le nostre stesse foto, a rubarci l’unicità dell’esperienza in terra esotica. Soprattutto se si è globe-trotter instancabili, ancor di più in quegli anni preziosi in cui l’esplorazione era ancora tale, prima che venissero inventati i travel influencer. Globe-trotter veri, come Nicolas Bouvier, giornalista e fotografo svizzero nato nel ’29 che arriva in Giappone in nave nel 1955. Ci resta oltre un anno. Vive con pochi soldi nel quartiere di Arakicho, a Tokyo, ogni tanto scrive un articolo e usa i soldi per curare la sua igiene, lì più importante del cibo. Fuma sigarette che si arrotola, usando un vecchio fondo di tabacco da pipa e incollando la carta col riso bollito. Impara la lingua attraverso i proverbi. “Tutti i proverbi giapponesi che riguardano il dolore, la tristezza, la sfortuna, sono di una grande forza espressiva”, dice. Torna poi nell’isola dieci anni dopo, con la moglie, e nota varie differenze. E’ inevitabile che il cambiamento ci renda nostalgici, anche di un tempo di stenti. E poi, più il tempo passa più aumentano i turisti fastidiosi che pensano di poter far loro lo spirito di un luogo con un tour di una settimana. Davanti a un giardino zen, “capolavoro di astrazione pura”, Bouvier ascolta tre americane che commentano. “Cute little garden”, dice una, “e la più risoluta conclude con voce stentorea: ‘As I look at those rock patterns, I can’t help thinking of… Jesus Christ’”. Delle francesi invece si lamentano perché nel loro breve soggiorno le guide non gli hanno rivelato “l’anima del Giappone”. Ecco, dice Bouvier, “veniamo in questo paese magro e frugale con il nostro metabolismo ingordo: in questo è racchiuso tutto l’Occidente”. Invece di sciorinare le proprie impressioni sul popolo ospite, che lui definisce “il più estetizzante del mondo”, Bouvier fa il contrario, studia gli occidentali tramite il modo in cui questi vedono i giapponesi. “Si paragonano volentieri i giapponesi agli spartani, per poi rimettersi a sedere, convinti di aver detto tutto”, scrive.

Non è moralismo o ditino alzato. E’ una diversa concezione del viaggiare. Per Bouvier il viaggio non è solo il passaggio in un luogo, ma la permanenza. Si resta, si vive finché qualcosa non rimane appiccicato. Con questo obiettivo Bouvier frequenta gente di lì, non certo le comunità di expat come fanno gli anglosassoni. Studia con dedizione la storia della nazione, cercando nel tempo le cause scatenanti delle condizioni contemporanee, dall’imperatore Kimei che per primo accolse il buddismo proveniente dalla vicina Corea, fino alle bombe atomiche. Tutto questo, dai viaggi del ’55 a quelli di dieci anni dopo, interpunti da analisi storiche del Nihon, le troviamo nel suo libro Cronache giapponesi, che Feltrinelli porta in libreria tradotto da Paola Olivi e Beppe Sebaste. Bouvier scrive come un fotografo, notando i dettagli, come il modo in cui la luce cambia colori e texture degli oggetti. “La pietra, il muschio, il legno, la patina dei tatami lustrati dalle pantofole che riflettono il cielo invernale”, scrive. Va addirittura in Hokkaido, che inizia giusto negli anni Cinquanta a diventar meta dei giovani campeggiatori giapponesi che vogliono scoprire il wild west nazionale. Si parte dalla stazione di Ueno, che sembra Place de Clichy “all’ora di punta” e si arriva in un posto fresco e selvaggio, per sfuggire al caldo afoso di Tokyo. “Quando il sole penetra in questa nebbia fitta d’acqua marina… è come se questo paese folle e brumoso fosse tutto contenuto in una sfera magica di cristallo”.

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