(foto LaPresse)

I ragazzi sono in giro

Simonetta Sciandivasci

Non è stato solo il virus. La fame di vita è sempre la stessa, ma negli anni quella che chiamiamo movida si è trasformata in uno spazio aperto

Il 6 gennaio del 2014, a Poggibonsi, su un cartello che vietava di giocare a calcio in piazza Frilli, pieno centro, un ragazzino scrisse: “Allora ci droghiamo”. La Nazione riportò che i residenti e i commercianti non sopportavano più il chiasso delle pallonate, anche perché “trattandosi di ragazzi piuttosto grandi, e non di bambini, il pallone viene calciato con una certa forza, spesso colpendo le vetrine e le porte dei negozi”, e allora quelli chiedevano più controlli. Il giornale dava loro ragione, accordandone anche alla controparte, i ragazzi, ai quali concedeva il diritto di “dare corda alla loro bella esuberanza”. Questa era l’Italia, quando nei confronti di quella che sciamannatamente chiamiamo movida ci si poteva permettere il cerchiobottismo perché i troppo vivi, nell’esercizio della di loro vitalità, attentavano a decoro, siesta, età avanzata, creanza, e non, come andiamo insinuando dal 18 maggio, giorno di riapertura di bar e quindi di bottiglie e rendez vous, alla salute pubblica.


Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha proibito la distribuzione di alcolici da asporto dopo le diciannove, applaudito dal governatore Fontana


 

L’Italia ha alzato le saracinesche e gli italiani, specie i giovanotti, sono andati a farsi un cicchetto, sistemandosi in rispettosa fila che però essendo piuttosto affollata è subito parsa assembramento, e allora il cronista collettivo ha decretato lo stato d’allerta, immediatamente dopo precipitato in stato di calamità, di modo che all’incirca gli stessi che per giorni ci hanno spiegato che il virus si è trasmesso e continua a trasmettersi soprattutto in famiglia e ospedale, hanno stabilito che la movida ha un altissimo potenziale di contagio, i sindaci si sono adontati, i pensionati anche, le zie non ne parliamo, certi editorialisti pure, e così adesso è tutto un controriformare, terrorizzare, sorvegliare e punire. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha proibito la distribuzione di alcolici da asporto dopo le diciannove, applaudito dal governatore Fontana che non vorrebbe veder vanificato l’esemplare lavoro svolto finora; Gabriele Muccino ha condiviso foto di aperitivi ravvicinati del terzo tipo, anticipando o forse ispirando al ministro Boccia l’istituzione della figura (figuro, per alcuni) dell’assistente civico, il volontario metà kapò e metà benefattore che aiuterà i cittadini a rispettare, e talvolta capire, la distanza di sicurezza e tutte le altre norme anti covid e che non avrà alcuna funzione delatoria, e proprio per questo si spera che disincentivi i forzati del civismo dal segnalare i malcostumi altrui al proprio uditorio social.

 

Mercoledì il Messaggero scriveva, con grande gravitas, che “le incognite dell’effetto movida” saranno chiare soltanto tra quindici giorni, e abbiamo tutti capito che ci aspettano due settimane di tuonanti rieducazioni e reprimenda da parte di amministratori di Palazzo e condominio, di suoceri figurati e non, di sconosciuti, leoni da tastiera, registi, linotipisti, cattivi pensieri, perbenisti. I troppo vivi al contrattacco hanno allora preso a twittare, ritwittare, animare, condividere, storicizzare la frase di quel ragazzino di Poggibonsi, che negli anni passati ogni tanto rispuntava fuori in prossimità della bella stagione, quando la recrudescenza dell’intolleranza verso i troppo vivi, i movidisti, comincia a farsi sentire, a istruire ordinanze, restrizioni, blocchi, interruzioni, restituendoci la cartina di un’invasione che ogni anno s’estende, asservisce quartieri, arricchisce ristoratori, osti, baristi, ma dispera interi condomini, in alcuni casi depauperandone il valore immobiliare.


E’ l’alibi perfetto per qualsivoglia rimprovero, la coperta sotto la quale nascondere l’odio per la vita che è così penetrante per alcuni di noi


 

Quando la psicopatologia della vita quotidiana era più facile e il reato d’esuberanza non esisteva, suppergiù fino a trenta o quarant’anni fa, la movida era un movimento di controcultura che nacque a Madrid, per liberare tutte le energie artistiche, vitali, espressive, sessuali e politiche che il regime di Francisco Franco aveva inibito, violentato, incriminato, perseguitato in tutti i modi in cui una dittatura perseguita la libertà. Finivano gli anni Settanta e la Spagna era in ritardo rispetto a quello che i giovani avevano sperimentato e conquistato nel resto del mondo, così la movida madrilena condensò tutto e fu assai accesa, variegata, eccentrica, affamata. Tentò di fare qualunque cosa, di parlare tutti i linguaggi, e di prendersi tutto, il futuro, il presente, il sottopotere, finché fu assorbita dal potere e così dal sottosuolo, dalla notte, dalla clandestinità dove era nata, si ritrovò alla ribalta, il suo dovere rivoluzionario fu coronato e rimase soltanto il suo spirito, il suo anelito vitalistico, il suo baccano, che da Madrid si irradiò in tutto il paese, specie a Barcellona, ed è lo stesso spirito che gli italiani, a partire dagli anni Novanta, ma in qualche caso anche prima, si fiondarono a cercare, per succhiarlo e inebriarsene, stordirsene, capirlo, odiarlo e importarlo, a volte vandalizzato, altre del tutto incipriato. Da paese di retroguardia, la Spagna era diventata la Mecca degli affamati e folli d’Europa.

 

“A Barcellona incontri i punkettini più belli e seducenti che ti sia mai capitato di vedere in Europa. Qui è la metropoli e la sua movida, qui sono i fantasmi della sua notte, l’eleganza delle sue ragazze. Attorno alle ramblas, illuminate e gremite di folla che staziona davanti ai tavolini dei caffè, bevendo sangria o generosi vini iberici, si disperdono i mille rivoli dei vicoli e delle stradine, affollati di prostitute, alcolizzati, teppisti, epicurei, transessuali, giocatori d’azzardo. E’ una fauna pittoresca che ti aggredisce per portarti a letto e spillarti quattrini senza troppi complimenti”. Questo scriveva Pier Vittorio Tondelli in “Un Weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta”, il diario indimenticabile di un decennio che in Italia fu zeppo di incroci, cocaina, morti evitabili, abbandoni, allentamenti, reflussi e provincia, un’infinita provincia. Gli anni che, ha scritto Valerio Magrelli, iniziarono nel segno del computer e finirono con il fax. Gli anni in cui avere l’età di quelli che adesso vengono accusati di molestare l’ordine pubblico, abusare dello spazio urbano, spadroneggiare nelle città seminando terrore e cocci di vetro e piscio, significava ritrovarsi in un bar che era sempre lo stesso, annoiarsi d’una noia che era l’attesa di una vita eccitante, in un altrove assoluto, vicino o lontano che fosse, una vita spericolata che ci si sarebbe poi ritrovati a raccontarsi anni dopo, sempre nello stesso bar, quella vita chissenefrega di tutto sì, quella che per capirne il desiderio e anche la capacità di accontentarsi di sognarla e basta, bisognava essere di Modena, tuttalpiù di Reggio Emilia e del mantovano, “la provincia più freak d’Italia”, dove “gli struggenti eroi di Vasco Rossi” si incontravano in stazione, per strada, dappertutto, e dove, scriveva sempre Tondelli, i comportamenti giovanili degli anni Sessanta erano sopravvissuti come mode ma soprattutto come contenuti: “la voglia di stare insieme, di fare casino, di raggrupparsi non tanto in opposizione ad altre compagnie, ma in antagonismo alla società adulta”. Per Tondelli, quei ragazzi di quella provincia dove ci si annoiava normalmente mortalmente, una noia che per i Cccp conteneva e istigava, inacerbiva e annichiliva, erano “una collettività ricca di senso, di talento, di forza”, che gli sembrava destinata a cambiare l’immagine della città, a darle un aspetto europeo, cioè a rivitalizzarla intonandola a “segni, colori, suoni di una contemporaneità che pare, una volta tanto, concreta e ottimistica”. I ragazzi erano in giro di notte anche allora, ma più discreti, più nascosti, forse meno rumorosi, meno spavaldi, legati dalla paura della delazione di parenti, amici, in fondo costumati dalla provincia, con il mondo che era il mondo, in larga parte sconosciuto e inarrivabile, nessuno di loro lo aveva in tasca, né era in grado di riprodurlo in scala. S’accontentavano di poco perché non potevano avere molto, e questo rimodulava la voce, imboniva le aspettative. Per drogarsi e scopare c’erano i fossi, le stradine di campagna, le macchine rubate ai genitori “nascoste e però nascoste male, che le vedi dondolare al ritmo di chi è lì dentro per potersi consolare, godendo sui clacson, fra i fantasmi di Elvis” – e questa è “Leggero” di Luciano Ligabue, nato a Correggio come Tondelli, cinque anni dopo di lui, e come lui cresciuto lì.


La movida era un movimento di controcultura che nacque a Madrid per liberare tutte le energie artistiche, vitali, espressive, sessuali e politiche


 

I ragazzi erano in giro ma soprattutto al bar, le compagnie di allora (quelle che negli anni Novanta presero a chiamarsi comitive) prendevano il nome dai bar o dai locali in cui ci si incontrava, e si restava lì per ore, ad aspettare che si fosse tutti, e poi, ciascuno, ad aspettare di essere l’ultimo ad andare via. Quando, anni dopo, arrivarono i cellulari, i posti smisero di essere appuntamenti, ci si poteva finalmente rintracciare ovunque, sempre, e il mondo cominciò a rimpicciolirsi, a essere reperibile, raggiungibile, e aumentando le possibilità aumentarono anche i bar, e s’allungarono le strade per ospitarli. Trascorrere una sera intera soltanto in un posto, per di più il solito, divenne presto inconcepibile per i ragazzi italiani in cerca di avventura, e le città s’adattarono a questa transizione epocale, a questo passaggio dal sedentarismo al nomadismo che rifletteva un cambiamento preciso nell’idea di spazio urbano che è valsa dagli anni Novanta a tutto il primo decennio degli Zero, e che persiste anche se picconata dal ripensamento sull’urbanità ubiquitaria di cui la movida non è che un portato, probabilmente il più rumoroso ma pure il più innocuo. Nei primi anni Novanta, e se ne ha un primo assaggio nella teorizzazione dei non luoghi di Marc Augè, cominciano a ravvisarsi i prodromi della submodernità, che porta con sé la difficoltà, per gli esseri umani, di abitare i luoghi, trovandosi invece molto più a proprio agio nella precarietà assoluta di un perenne transito. A questa esigenza costante di muoversi, che è dell’intera comunità umana ma soprattutto dei ragazzi, al bisogno di riposizionarsi, di avere in una serata un obiettivo e in un obiettivo decine di mete, le città e pure i paesi italiani s’adattano dal finire degli anni Novanta in poi. E così le strade e le piazze in cui ci si ritrova prendono a essere quartieri, quelli che oggi chiamiamo “zone di movida” (i Murazzi di Torino, i Navigli di Milano, la Trastevere romana), e la concentrazione di persone cresce in modo esponenziale non soltanto perché lo spazio a loro disposizione è maggiore ed è pensato in tutto per essere funzionale ai loro consumi, ma pure perché quel transito perenne finisce con il caratterizzare anche un modo di stringere relazioni, intessere rapporti, affacciarsi agli altri, cercarli. Non si esce per stare con i propri amici, ma per cercarne altri, per allargare continuamente la propria cerchia affettiva: è il primo fondamento della nuova accezione di amicizia che i social hanno formulato, un legame basato sull’approvazione e sulla conquista assai più che sulla condivisione e lo scambio – gli amici di Twitter sono infatti follower, seguaci.

 

Se negli anni Ottanta essere giovani significava essere presi in considerazione, avere la consapevolezza che il destino della città si giocava sulle proprie spalle tant’è che scriveva Tondelli che “i ragazzi erano la piazza”, accadeva anche perché lo spazio urbano non suggeriva un potere, come fa adesso per esortare al consumo, ma manteneva ancora l’idea che lo spazio pubblico dovesse essere ciò che l’agorà aveva decretato che fosse e cioè un centro strategico per lo scambio di idee e per la creazione di linguaggi nuovi. Negli anni Novanta, invece, il cittadino da soggetto politico diventa spettatore perché, come scriverà più avanti Jean Baudrillard ne “Lo spirito del terrorismo”, all’indomani dell’11 settembre, il protagonista dello spazio moderno non è l’argomento ma l’evento mediatico. Lo scambio tra le persone che abitano uno spazio si atrofizza e muta: non conta più dialogare insieme, ma assistere insieme a qualcosa, che sia possibilmente memorabile. Questo ha fatto degenerare la movida, rendendo spesso le zone che la ospitano circhi a cielo aperto dove il confine tra pubblico e privato è labile quanto lo è nei reality show e sui social network, un confine che i cellulari per primi hanno contribuito a sfumare: le parole che un tempo sussurravamo all’orecchio di qualcuno, vengono proferite in pubblico, estendendo così la dimensione privata a quella pubblica. Lo spazio domestico e quello di tutti non si presentano da più di un decennio ormai come l’uno il contrappeso dell’altro: piuttosto, sono collassati l’uno nell’altro. E’ questo che balza agli occhi nelle notti di movida, la confidenza sboccata tra chi le anima, il pensiero assente per chi, invece, le subisce ed è così obbligato a partecipare di una intimità che non ha scelto.


Poi arrivarono i cellulari, e i posti smisero di essere appuntamenti. Ci si poteva rintracciare ovunque. Il mondo cominciò a rimpicciolirsi 


E’ innanzitutto da questa ennesima promiscuità, da quest’ennesima abolizione del confine che nasce l’intolleranza verso la movida, nelle sue manifestazioni peggiori: il modo in cui trasforma un’esperienza di pochi in un evento a cui si è obbligati a partecipare. E’ l’osceno che pretende d’esser visto e partecipato.

 

L’esasperazione conseguente ha fatto il resto, naturalmente, e la movida è adesso l’alibi perfetto per qualsivoglia rimprovero, la coperta perfetta sotto la quale nascondere l’odio per la vita che è così penetrante per alcuni di noi, per i molti che possono guardare il mondo restando appartati, e incrudelendo nell’anonimato. E’ diventato reato di movida anche chiacchierare in strada con un cocktail in mano, anche baciarsi come si baciano i ragazzi che si amano, e prima che arrivasse il virus la cosa più sacra di cui parlavamo era lo spazio personale, e gli psicologi ci illuminavano su quanto stress ci arrecassero coloro che osavano violarlo. Poi è arrivato il coronavirus, a dirci che se ci stiamo vicini ci ammazziamo, e noi abbiamo pianto e cantato per settimane sui balconi, dicendo quanto ci mancava abbracciarci e offrirci da bere, e ora che possiamo tornare a offrirci da bere ci diciamo che questa nostra fregola rimanderà il mondo in lockdown. Sarà che aveva ragione un altro genio degli anni Ottanta, Freak Antoni, e la storia di questo paese è la storia di una popolazione giovane e ardente e naturalmente demente.

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