Perché nel post Covid la comunicazione riparte dal barbiere di Mattarella
Meno storytelling, più storydoing. I principali comunicatori in Italia concordano: dopo l'emergenza la comunicazione, e il simbolico, si sposteranno verso la realtà, e il realismo
C’è uno splendido video su YouTube, intitolato: “Every Covid-19 Commercial is Exactly the Same”. Tre minuti e mezzo perfidi, dai quali si nota che moltissime aziende, Uber, Samsung, Apple, Budweiser, Facebook, Heineken ecc, hanno reagito all’emergenza Covid in sostanza con lo stesso spot. Il montaggio del video giustappone i vari luoghi comuni. 1) Pianoforte jarrettiano/sgocciolante in sottofondo 2) Voce narrante profonda 3) Fotografia iperrealista, chiaroscuri, panorami deserti, sunsetporn, dawnporn 4) Storytelling sui singoli, e tanti volti in primo piano. 5) Parole chiave: “home”, ripetuta in tutti i modi e con tutti i toni, e molti, moltissimi “together”. Il video si chiude con una tempesta di “together”.
Emergenza in corso, poco tempo per elaborare nuove creatività, certo. Ma proprio per questo si nota che i linguaggi (sentiment, concetti, trama, fotografia, musica) che fino a ieri funzionavano oggi sembrano invecchiati di colpo. Le pubblicità sono un segnale piccolo ma potente, che mostra il legame tra desideri, mercato, e immaginazione collettiva. Con l’emergenza Covid la chiave di lettura emotiva, iperrealista, soggettiva, nostalgico/sentimentale che sembrava in grado di evocare e indirizzare i demoni del desiderio, probabilmente è arrivata al suo unhappy ending.
Migliori o peggiori, incattiviti o rabboniti, imbelliti o imbruttiti, tracciati o stracciati. Come se ne uscirà non è chiaro, si sa che l’emergenza Covid è una zona grigia, di conoscenza, decisione e rappresentazione. I dati scientifici incompleti si sono riflessi sugli elementi della catena decisionale e simbolica: scienza incerta uguale politica incerta, economia dissociata (nella paralisi imprenditoriale le borse prima sono crollate, poi, col grande ritorno di stati e banche centrali hanno ripreso come se niente fosse) mezzi di informazione oscillanti, con corollari infiniti di fake news e complottismi. La pandemia è stata ed è anche una crisi dell’immaginazione collettiva. “Questa 'opacità' del simbolico, o, se vogliamo, rottura del legame tra parola e cosa, Manzoni la chiama 'trufferia di parole' – racconta al Foglio, Maria Vittoria Pugliese, studiosa di pestilenze in letteratura – ed è un classico di tutte le epidemie, dall’Iliade a Sofocle a Boccaccio a Jack London (il terribile La peste scarlatta), a Poe, a Camus. La forma principe è la negazione, il 'non è'. L’altra forma è l’elenco delle vittime”.
Papa Francesco prega da solo in piazza San Pietro lo scorso 27 marzo (foto LaPresse)
Riguardo ai “non” abbiamo fatto cenno qualche riga sopra. Per quanto riguarda gli elenchi abbiamo avuto i collegamenti serali dalla Protezione Civile con i nuovi positivi e le vittime, il mesto rituale laico della quarantena. L’icona “emozionale” più forte durante il lockdown è stata, probabilmente, la preghiera del Papa in San Pietro deserta durante un piovoso venerdì di Quaresima. L’immagine ha fatto il giro del mondo, si mette a capo di qualsiasi immagine di città deserta, e perfino Mattarella ha cercato di rievocarla con le sue foto in solitaria davanti all’altare della patria, per il 25 aprile. Ma quella del Papa è un’immagine insuperabile proprio perché religiosa, già in partenza legata all’irrazionale, e a un tempo penitenziale come quello di Quaresima. La coincidenza perfetta di simbolo e tempo si chiama verità.
Sergio Mattarella all'altare della Patria il 25 aprile (foto LaPresse)
Dall’altra parte il ragazzo con la chitarra che suonava la colonna sonora di “C’era una volta in America” sui tetti di Roma. Il film più nostalgico di sempre, la musica più nostalgica di sempre, la più grande nostalgia di vita di sempre.
E infine l’altro episodio che ha colpito è stato il fuori onda del presidente della Repubblica Mattarella: “Giovanni, nemmeno io vado dal barbiere”. Un involontario, si dice, ma perfetto richiamo al quotidiano. Low profile. Ironico. Realista.
“Dall'inizio dell'emergenza ci sono state molte manchevolezze, che hanno creato incertezza. Annunci notturni, che andrebbero sempre evitati, perché creano ansia, poi ritirati e corretti, troppe voci: premier, ministri, commissari, governatori, sindaci. Una delle regole base della comunicazione di crisi è la centralizzazione del messaggio” conferma al Foglio Gianluca Comin, fondatore della Comin & Partners, che si è affermata in pochi anni come una delle maggiori realtà di consulenza strategica nella comunicazione e nelle relazioni istituzionali in Italia. E come se l’è cavata Giuseppe Conte? “Ha avuto coraggio a esporsi in prima persona, anche se poi, non avendo una vera squadra dietro è entrato in un cono d’ombra” commenta Comin. La sensazione è che al di là delle ondate emotive di consenso social, forse Conte abbia finito per puntare troppo sul personale/sentimentale. Molti, forse troppi, “io”, chiedere un “atto d’amore” delle banche, a fronte di direttive non proprio chiarissime, e abbondantemente anticipate dai giornali.
Con il ridursi dell’emergenza e con l’arrivo di fasi 2/3/4 si pone il problema, comunicativo e simbolico, di cosa raccontare e di come raccontarlo, in una fase di contrazione dell’economia. Dal punto di vista della comunicazione politica, istituzionale, aziendale. “Abbiamo bisogno di dare messaggi più precisi” racconta al Foglio Andrea Vento, titolare di Vento e Associati con una lunga esperienza al comune di Milano, a fianco di Gabriele Albertini e Letizia Moratti. “C’è bisogno di elementi di certezza, dopo la grande incertezza del coronavirus. In questo periodo la comunicazione più centrata è stata portata avanti da Scandinavia e Germania. Uso dei tamponi, puntualità, poca emotività. Elementi che torneranno utili anche per il dopo”.
Secondo Auro Palomba, presidente e fondatore di Fondatore di Community, gruppo leader nel reputation management “si passerà dallo storytelling allo storydoing, bisognerà fare prima di raccontare. Molti miei clienti hanno fatto donazioni, e contrariamente al passato è stato giusto farlo sapere perché si innesca un meccanismo di emulazione positiva. Le imprese devono cominciare a produrre mostrando che il luogo di lavoro è un luogo sicuro. In generale funziona più l’oggettività che la soggettività, le imprese devono far sapere cosa fanno per il pubblico”.
Giuliana Paoletti, fondatrice di Image Building gruppo di comunicazione finanziaria e d’impresa, che tra l’altro è stato tra gli artefici dell’arrivo di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria, racconta: “La comunicazione è fondamentale ed è aspirazionale, ma discende dai fatti. In questo momento, e nel prossimo futuro aspiriamo a tornar a una vita normale, non a comprarci la macchina più tecnologica , ed è chiaro che nei prossimi mesi una comunicazione esaltante e esaltata, non funzionerà. Molte aziende stanno puntando su una maggiore attenzione ai propri dipendenti come EPS che ha inventato il familyworking, che coniuga il lavoro da remoto con l'equilibrio familiare”.
Sulla stessa linea Marco Forlani, che dirige Hdrà, tra le più importanti società di comunicazione in Italia: “Le aziende che si sono rivolte a noi durante la fase uno hanno chiesto più velocità e più pragmatismo. Un esempio positivo: una grande azienda ha avuto bisogno di una campagna in tempi rapidissimi, per spiegare cosa deve fare il cittadino. Per il futuro vedo un ritorno alla semplicità: trasferire il concetto di competenza ed efficienza”.
Secondo Luca Barabino, fondatore e ceo di Barabino & Partners, azienda di punta nel ramo consulenza di direzione in comunicazione d'impresa “non si può parlare nemmeno di ripartenza, siamo già nel dopo/crisi. Sono cambiati gli stili di vita, in molti casi per obbligo, in alcuni per scelta. Nel bel breve periodo il problema emergente è quello occupazionale. Secondo le ricerche quasi metà degli italiani hanno paura di perdere il proprio lavoro, ma seguirà una crisi 'vocazionale'. Madri lavoratrici decideranno di non lavorare più e dedicarsi alla famiglia, molti decideranno di lasciare le città, anche perché con lo smartworking non sarà così necessario stare tutti i giorni in ufficio, ad esempio a Milano”.
I principali comunicatori in Italia concordano, quindi. La comunicazione, e il simbolico, si sposteranno verso la realtà, e il realismo. La storia culturale conferma: a tempi di espansione economica corrispondono momenti di euforia simbolica e comunicativa, in tempi di contrazione dell’economia si va verso la realtà, verso la rappresentazione del conflitto in forma più o meno ironica, e si tende alla periferia più che al centro. Dopo la Grande Depressione, negli Usa, spuntano i gangster movie che mostrano il lato oscuro dei roaring twenties: Nemico pubblico con la faccia feroce di James Gagney è del 1931, il primo Scarface del 1933. Allo stesso tempo nasce la letteratura che racconta le condizioni di vita di luoghi negletti: Kansas, Nebraska, il Sud della Dust Bowl, con autori come Horace McCoy (Non si uccidono così anche i cavalli?), Dos Passos. Si arriverà al capolavoro di Steinbeck, Furore, nel 1938. Intanto nascono le prime guide per viaggiatori. Verso le regioni periferiche parte un’onda di giornalisti, documentaristi, ricercatori, tra cui un giovanissimo Alan Lomax, che nei suoi giri a Sud finirà per scoprire una bella fetta di blues e jazz. Anche la pubblicità si cerca nuovi strumenti per capire la realtà. Come racconta Jackson Lears in A cultural history of advertising in America, dopo la Grande Depressione “è stato riabilitato il concetto di sovranità del consumatore. implementando le ricerche scientifiche di marketing, e utilizzandole anche per capire la politica”.
Lo stesso discorso vale per gli anni del Secondo Dopoguerra in Italia: cinema neorealista, letteratura che racconta Sud e periferie in generale. Nasce l’antropologia, con i vari De Martino, Revelli, Carpitella. Anche in questo caso le coordinate dovrebbero essere simili. Dopo l’euforia del postmoderno, i tentativi post crisi 2008 della filosofia del nuovo realismo, e della new italian epic, e il ritorno al sogno, alla nostalgia del Novecento dell’ipermoderno, si dovrebbe puntare sulla realtà.
Anche attraverso i tradizionali social, usati in maniera nuova. “Per esempio – aggiunge Vento – abbiamo organizzato una serie di 'Talk Resilienti' in videoconferenza, per tenere in contatto operatori, comunicatori, giornalisti, amministratori, durante il lockdown, che si sono rivelati una miniera di notizie, informazioni, commenti. Anche il nostro gruppo WhatsApp è ricchissimo di informazioni”. Anche Forlani è d’accordo: “In passato nelle difficoltà di incontrarsi non era così automatico passare in videocall, adesso, dopo il primo mese, stiamo lavorando bene. Ci sono meno convenevoli, le riunioni sono più produttive, e si va verso una maggiore attenzione ai contenuti. Emerge l'esigenza di essere meno 'creativi' e più fattuali. Sul discorso di lobbying, che è una delle attività del gruppo Hdrà, l'emergenza ha fatto venire fuori la differenza tra un lobbista serio e competente e chi fa semplicemente maneggi”.
Ci sarebbe, anche, da mettere in evidenza che, in un momento di fame di informazioni e fame di realtà, hanno avuto un grande successo le statistiche elaborate in proprio da diversi ricercatori sui siti personali. E che su Instagram, un social nato come trionfo dell’estetica fotografica, sono nati ovunque notiziari che hanno forzato la natura del mezzo, trasformandolo, con le stories, i filmati, i post lunghi, in una piattaforma editoriale di successo.
Su tutto il tema dell’allontanamento dalle città Vento ha le idee piuttosto chiare: “Sono rimasto molto colpito dalle immagini della folla che partiva verso il sud, dalla stazione di Milano Garibaldi, durante il lockdown. Mi sembra il segno che quel modello, di una Milano edonista, patinata, alla quale del resto ho lavorato molto in prima persona, avendo collaborato anche con Expo, sia finito, e che il futuro sia altrove”. Dove? “Penso sia finito il modello delle città gateway, il modello degli eventi flagship, che ormai saranno per parecchio tempo fuori portata a causa del distanziamento”. Quindi si torna al piccolo? “Esattamente – prosegue Vento – penso che il futuro saranno le piccole città, magari di origine medievale, come Parma, Mantova, Siena, Lecce, con i cui sindaci siamo in contatto, e un modello di turismo diverso: fatto di fruizione lenta, 'esperienziale'. È anche un'occasione per conoscere il proprio paese. Il turismo edonista, da spa, e centri massaggi, è un modello lungo che era cominciato negli anni Ottanta, ed è durato 40 anni. Ma il vero modello di comunicazione resiliente, dal Covid in poi, l’hanno portato avanti i ristoratori, e ora i parrucchieri e barbieri”. Che sono diventati, dopo il famoso fuorionda, tutti fan di Mattarella.
“Alcuni hanno dato prova di uno spirito ricostruttivo simile a quello del dopoguerra – commenta Luca Barabino –. Nel prossimo periodo saranno vincenti le aziende che offrono soluzioni ai problemi della collettività. Dal punto di vista dell'immagine è meglio un’azienda che fa il 25 per cento di ricavo e lascia a casa gente, o una che ne fa meno, ma non lascia a casa la gente?” Ovviamente la seconda. “Meglio Armani che fa donazioni per primo (e ha obbligato tutto il settore a seguirlo), converte la linea produttiva nella produzione di camici monuso per la protezione individuale, sposta l'haute couture da Parigi a Milano”.
In questo, forse, le aziende della moda, che da anni si confrontano con il problema della sostenibilità, erano già più attrezzate di altre. “Senz'altro – prosegue Barabino – Brunello Cucinelli segue da 15 anni la filosofia del giusto profitto, delle crescite 'garbate', ma facendo attenzione ad altri parametri. E la cosa che si nota è che spesso i manager con qualche anno in più sono più veloci a interpretare questo cambiamento, dei giovani, che spesso, sono preoccupati solo dei ricavi lordi. Tra l’altro, spesso, i senior hanno una maggiore cultura politica e relazionale, e sono meno viziati dallo specialismo”. Insomma, come direbbe il protagonista di Mad Men, Don Draper: “A young campaign don’t necessarily come from young people”.
In tema di giusti profitti e sostenibilità, secondo Palomba, “questa crisi può essere un passo avanti di dieci anni in pochi mesi, perché si pone in modo chiaro, finalmente tutto il tema del value sharing. Noi lavoriamo da anni con Nativa, franchising Italiano delle bcorp, le imprese la cui attività economica crea un impatto positivo su persone e ambiente, per diventare anche noi una B corporation. Le imprese devono farsi carico di una responsabilità sociale, anche in sostituzione dello Stato. Dal punto di vista della concretezza, anche in politica, quando la salita si fa dura si vede chi ha gamba. Il discorso vale a destra come a sinistra. Mi vengono in mente i nomi di Zaia e Bonaccini”.
Nell’insieme è molto probabile che, dal punto di vista della comunicazione e del simbolico, non ci sarà un ritorno all’èra precedente, ma cambieranno contenuti, stili, e simboli. Meno voli “emozionali”, più pragmatismo. Per ora si nota un ritorno alla concretezza anche nel marketing. Il successo dell’iPhone SE, un telefono che non è all’avanguardia, ma punta su funzioni consolidate, dice qualcosa. Come la nuova campagna Piaggio, che riprende uno slogan anni 50 “Vespizzatevi” con un artwork solare. Alasdhair MacGregor Hastie, direttore creativo dell’agenzia di pubblicità Betc di Parigi, in un'intervista a Italia Oggi racconta: “Ci sarà il trionfo della non superficialità, della gente che sa fare il suo mestiere. I valori che si stanno affermando sono quelli classici”. Un punto in più per il barbiere di Mattarella.
Anche se, chiosa Comin, “la nostra propensione al consumo è sempre legata alle emozioni e al valoriale. In una certa misura, in questo tipo di comunicazione, il sogno vince sempre sul bisogno”. Cambierà la temperatura emotiva dei sogni, ecco.