(foto LaPresse)

Torna a galla la cattiva concezione del rapporto tra scienza e politica

Sergio Belardinelli

Conseguenze indirette della pandemia. Un vecchio problema

Per quanto irrilevante possa apparire rispetto al terribile numero delle vittime e alle sue conseguenze economiche, sociali e politiche, questa pandemia ha fatto venire a galla anche un significativo deficit culturale: la cattiva concezione del rapporto tra scienza e politica che ha tenuto banco nel dibattito pubblico delle passate settimane e nei comportamenti della nostra classe politica, letteralmente nascosta dietro il parere degli esperti.

 

Ovviamente nulla è più scontato del fatto che la politica si serva di consulenze in campi in cui è del tutto normale che soltanto pochi siano “esperti”. E’ segno di responsabilità politica farlo, specialmente oggi che la politica è chiamata a prendere decisioni su materie che richiedono conoscenze specialistiche assai sofisticate: si pensi all’energia, all’ambiente, ai big data, all’intelligenza artificiale, alla dimensione globale acquisita ormai anche dai problemi locali e, appunto, alle pandemie. Naturale dunque che con il coronavirus siano stati i virologi a venire in primo piano. Credo tuttavia che la loro sovraesposizione mediatica abbia danneggiato sia la loro immagine sia quella dei decisori politici.

 

Dal primo mattino a notte inoltrata, in tutti i canali televisivi, non abbiamo fatto altro che ascoltare i loro pareri. E fin qui poco male. Sennonché in molte occasioni proprio i virologi hanno dato vita a discussioni che tutto avevano fuorché il carattere di discussioni scientifiche. In alcuni casi sono volati addirittura gli stracci. E questo sicuramente non ha giovato al loro prestigio e forse nemmeno a quello dei talk-show ospitanti. E’ piuttosto avvilente vedere giornalisti che incalzano i virologi per sapere quando si potranno riattivare i trasporti pubblici, riaprire i ristoranti o mandare di nuovo i figli a scuola e che questi ultimi rispondano come se la decisione fosse di loro competenza. Per non dire dell’uso politico che si è fatto della scienza.

 

Con sorprendente disinvoltura, salvo rare eccezioni, abbiamo visto politici e scienziati fare a gara nell’avallare una sorta di determinismo, tale per cui, se il virus si comporta in questo modo, ne consegue necessariamente che c’è un’unica soluzione politica del problema: il lockdown. Persino i decreti del presidente del Consiglio, i famosi dpcm, sembravano trarre la loro apodittica validità dal semplice fatto che così consigliava il “comitato degli esperti”. Grazie alla scienza, la politica avanzava insomma la pretesa di essere essa stessa “scientifica”. Come i corpi fisici che, se posti su un piano inclinato, scivolano inesorabilmente verso il basso, allo stesso modo il coronavirus costringeva la politica a prendere ogni volta l’unica decisione possibile.

 

E’ un antico problema questo del rapporto tra scienza e politica. Quest’ultima, la politica, come ben sapeva Aristotele, è sempre in balia di “differenze e fluttuazioni”, contrariamente alla scienza dove si tratta invece della ricerca della verità. Entrambe sono chiamate a esercitare la ragione, ma la ragione della polis non è la stessa della città scientifica; le “verità” della politica non sono e non possono essere quelle della scienza. Nella scienza infatti sono soltanto gli “scienziati” ad aver diritto di parola e cambia poco o nulla che i “profani” diano il loro assenso (che dissentano è addirittura insensato). La sequenza del coronavirus è quella che ci dicono i virologi, non certo quella che può immaginare un poeta. In politica, invece, almeno finché si tratta di una politica democratica, non si può distinguere con altrettanta precisione tra gli esperti e i profani. Dal momento che si tratta di prendere decisioni che interessano l’intera comunità, l’assenso degli uni vale tanto quello degli altri. Rispetto allo scienziato, il politico si trova quindi in una situazione molto più complicata; deve sapere, ad esempio, che i “profani” sono appunto profani (uno non vale uno), ma deve anche sapere che una determinata misura politica non è buona o legittima semplicemente perché suggerita dagli esperti. Come nel caso del coronavirus, può darsi benissimo che il lockdown sia stata la soluzione migliore per tutelare la “salute” dei cittadini, ma di certo questo non rende infondate le preoccupazioni di coloro che, poniamo, guardando alle conseguenze economiche di quella decisione, rivendicavano magari una maggiore flessibilità delle misure, onde evitare una catastrofe che avrebbe avuto conseguenze devastanti anche sul sistema sanitario e quindi anche sulla nostra salute. Ciò che voglio dire è che la politica è chiamata a prendere decisioni, tenendo sempre conto di una molteplicità di fattori in gioco. Non c’è nessuna scienza che dica che cosa si deve fare in determinate circostanze. L’ignoranza, come insegna von Hayek, è il vero fondamento di ogni politica che voglia essere liberale e democratica. Per questo la politica è soprattutto responsabilità. Ad un certo punto, rispetto alla pluralità delle opinioni, ci si assume il rischio, la responsabilità, di decidere in un modo piuttosto che in un altro. Sta qui la grandezza della politica. E meritano fiducia e rispetto soprattutto quei politici che se ne fanno carico in prima persona.

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