Persone in coda per fare la spesa a Milano (foto LaPresse)

Come restare umani al tempo del grande “reset” per coronavirus

Marianna Rizzini

C'è la paura del virus, e poi c'è l'altra paura: quella di tutto il resto. Un'inquietudine, un dubbio che si presenta via via, durante la giornata. Sarò capace di gentilezza?

C'è la paura del virus, e poi c'è l'altra paura: quella di tutto il resto. E il resto non si riesce bene a vederlo nei suoi confini. Si presenta via via, durante la giornata, come fosse un avviso sullo schermo del cellulare, e invece è nella tua mente. E' una paura indefinita, un'inquietudine, un dubbio. Dubbio di fronte alla cassiera che vede il cliente quasi novantenne compiere il gesto abituale, mettere la bottiglia d'acqua sul ripiano della cassa chiedendo permesso a chi è in fila prima di lui, perché la bottiglia pesa, e lei subito gli urla contro in malo modo “ma allora lei non ha capito!”. E tu ti dici che sì, la cassiera è in pericolo, sta a contatto con tante persone, e pure se ha guanti e mascherina è comprensibilmente nervosa. E però ti dici anche che no: tanto più ora forse bisogna auto-imporsele, la gentilezza e la comprensione, quelle di cui però non sai se tu stessa sei ancora capace.

 

E infatti un'ora dopo ti viene da rispondere male, molto male, al poliziotto che mentre vai a fare la spesa da sola ti dice “ma lei dove va?” con tono inutilmente perentorio, e lo sai che deve fermare la gente, e lo sai che c'è il decreto, e sai anche che il decreto i primi due giorni lasciava aperta l'interpretazione sulla passeggiata – e pensa, ti dici, mai avrei immaginato di dover discutere di un decreto con margini di interpretazione sulla distanza di passeggiata, e sul modulo di autocertificazione, e su dove vado, ma lo devi fare, e devi anche essere gentile.

 

Ma non sai se ce la fai: stavolta sì, ma la prossima? Cosa dirò, e come, a chi mi fermerà forse con tono ancora più perentorio mentre vado da mia figlia rimasta per un caso forse fortunato fuori Roma dai nonni? Ho il giustificato motivo, sì – prendere la bambina? prendermi cura della bambina? – e devo essere gentile, mi ripeto, perché lo stanno facendo tutti per il bene di tutti. Ma sarò capace di gentilezza? E se a me prende così, figurati a uno più testa calda di me. O a uno che semplicemente ha bisogno di uscire due volte al giorno, caschi il mondo, anche solo per il giro del palazzo.

 

E ti immagini allora i possibili trasgressori al divieto, adolescenti magari, ragazzi che non ascoltano i genitori che forse, da qualche parte, dopo un'altra settimana di “tuttiacasa” non se ne stanno a casa, e rispondono magari stupidamente e in modi non consoni alle forze dell'ordine che li fermano, e ti vedi nella mente, in cinque minuti, per suggestione indotta da questo ribaltamento del mondo che risponde al nome di “emergenza coronavirus”, diverse sequenze di film sugli abusi di potere visti all'università, quando tutti eravamo ancora molto cinefili e molto di sinistra, ma poi pensi anche alla Gran Bretagna, dove Boris Johnson dice “abituatevi a perdere i vostri cari, non si può fermare il contagio, lasciamo tutto aperto”, e oscilli per ore, vergognandotene anche un po', in pensieri sospesi a metà tra i due estremi: allarme democratico-allarme darwinista.

 

E allora ricominci a dubitare. Emergenza per noi che non l'abbiamo mai vissuta vuol dire ricerca di una certezza, di una data di scadenza che non c'è. Non c'è sulla fine di tutto questo, non c'è sull'eventuale inasprimento delle misure. E il dubbio si moltiplica sulle nostre reazioni: reazioni di terrore o, all'opposto, di negazione e sfida, solo che la sfida non è soltanto contro te stesso perché ha impatto sugli altri. Reazioni positive: telefoniamoci, stiamo in contatto, vediamoci per cena via chat. Ma avverti sottotraccia, in qualcuno, la voglia di chiudersi e lasciarsi andare. E avverti sottotraccia la fiera dei piccoli individualismi, tipo quello che in farmacia non cede il posto a chi barcolla per l'età perché “qui voglio stare il meno possibile”. O quello che non sa più se donare il sangue anche se serve, perché teme sia pericoloso, anche se è stato detto che si dona in sicurezza.

 

E allora ti viene da domandarti come sarà tra una settimana. E pensi, per consolarti, che è come se il virus avesse dato, da un lato, il via libera a una serie di nevrosi private e pubbliche, ma dall'altro tirato fuori piccole virtù. Ma non c'e tempo per capire se sei diventato peggiore o migliore del te stesso di prima. La sensazione di incertezza impone ora, subito, una serie di piccole scelte continue. “Scelte scomode”, si diceva prima del virus, senza sapere che cosa fosse la scomodità. Scelte che hanno molto a che fare con quello che siamo e forse non saremo più, perché è come se questo scenario ci costringesse a un gigantesco “reset”, con nemesi e contrappasso: cancella e riparti, ma è tutto il contrario di quello che facevi finora. Scelte che hanno a che fare con quello non vogliamo diventare: disumani. E ognuno pensa alla disumanità a modo suo, in questo momento. Disumanità è deresponsabilizzazione, come quella di chi si attiene alle regole ma tira fuori il peggio in nome dello “staiacasa”, e lo fa come forse faceva prima, applicando la gogna alla casta o ai politici, e ora invece mette alla gogna su internet chi secondo lui ha trasgredito, anche se da solo, anche se a distanza, al divieto di parco che ancora non c'era. Ma disumanità può essere anche pensare che tanto sto a casa e allora vivrai in pigiama, motivo per cui vai subito a comprare un altro rossetto, ma in farmacia, e poi ti rendi conto che i nonni, quelli a cui dovremmo guardare perché hanno fatto la guerra che era molto più del divieto di spritz, ti dicevano che in guerra le vendite di rossetti si impennavano.

 

Ma qui non si tratta del divieto di spritz. Si tratta dei confini della nostra umanità. Quella che appare sul volto di Tom Hanks e di sua moglie, contagiati, composti e gentili. Quella che tiriamo fuori non si sa come, salutando la gente da un balcone all'altro, in un gigantesco remake involontario de “La finestra sul cortile”. Ancora una volta emerge lei, la gentilezza. Come fare a imporsela, quando l'istinto porterebbe in direzione opposta, questo è il problema per tutti: cittadini, governanti, forze dell'ordine. E come restare umani e comprendere tutto e tutto bene, ti chiedi, quando vedi la tua città buia: diminuiscono i passanti e aumentano di nuovo, alle sei della sera, le camionette. O come restare umani e far capire tutto e tutto bene con le scuole chiuse, mentre pensi che ai bambini servirà qualcosa in più dei compiti da fare a orari fissi, con il programma a cui restare ancorati per non perdersi. Alle 9 la colazione, alle 11 grammatica, alle 13 pranzo. E forse allora alle 15 è il caso di provare a raccontare quello che si sta vivendo, a parole proprie, noi e loro, e dirsi in continuazione che fare finta di niente è l'ultima cosa da fare, e alle 18 mettersi a cantare “Azzurro” alla finestra, per il flash-mob. E chi l'avrebbe mai detto: salvati da un flash-mob.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.