Minority report
In tempi di coronavirus, l'antidoto all'effetto “terza persona” è la tradizione
E' la cultura a fare accettare il sacrificio per il bene delle persone che si amano, che fa lavorare per il bene anche quando le cose vanno male
Lo chiamano “effetto terza persona”. E’ quel tragico principio psicologico e sociologico per il quale ciò che di negativo avviene o ciò che di difficoltoso si presenta non riguarda mai me, ma gli altri, genericamente intesi. In questi giorni di coronavirus abbiamo visto l’effetto terza persona in tutta la sua espressività. L’infezione può capitare agli altri ma di certo non a me: figuriamoci, io sto sempre con persone a posto. Come se il contagio fosse una questione morale. Sì, è vero ho appena frequentato uno che è stato contagiato, ma vado a lavorare lo stesso: gli altri devono stare attenti al moltiplicarsi dei rapporti, mentre io sono sicuro perché ho avuto proprio solo un contatto brevissimo. Vorrete mica che proprio io sia contagioso? No, a noi non può capitare. Il decreto dice di stare in quarantena o autoisolamento. Ma io non posso proprio, ho cose importanti da fare; e poi, gli altri sì che mi fanno arrabbiare che non rispettano i divieti, ma il mio caso è sicuramente particolare, non previsto dalla legge che, si sa, è sempre o troppo larga o troppo stretta, nel mio caso c’è di certo un’eccezione e, se non c’è, ci dovrebbe essere. Il decreto dice di stare a casa: ma si riferirà ai vecchi – in cuor nostro si è sempre giovani – o almeno ai più vecchi di me. Ah, i ragazzini scapestrati che vanno in discoteca, io no, devo andare a teatro, come Macron, o alla cena dei colleghi, che c’era proprio un’occasione importante, o alla riunione di famiglia. O, meglio ancora, a festeggiare l’elezione al Parlamento dell’amica: ma quando ricapita? Possibile che il decreto lo impedisca? Chiudono il nord: benissimo, allora vado a sud, dove ho sempre i miei parenti che se sanno che mi fermo quassù, stanno male. Parto subito. Non volevano impedire proprio questo? Ma certo! Gli altri infatti devono restare qui, io ho una situazione unica. Bisogna avere il permesso o l’autocertificazione per spostarsi? Ma non sanno che cosa faccio io, come è importante la mia presenza al lavoro. E così via.
Dalle fake news che ingannano sempre quelli che votano diversamente da noi alle tragiche vicende di questi giorni, l’effetto terza persona in realtà non colpisce le persone ineducate – come qualcuno ha scritto – ma quelle che hanno studiato almeno un po’. Sono loro – siamo noi – ad avere sempre l’eccezione pronta, ad aver capito che c’è sempre l’interpretazione che forza i fatti, a trovare sempre un’autogiustificazione che alleggerirà la coscienza.
E’ qui dove si capisce che la cultura non è solo questione di studio, ma ha una radice affettiva, che fa sentire di volere il bene generale più del proprio tornaconto immediato, che fa accettare il sacrificio per il bene delle persone che si amano, che fa lavorare per il bene anche quando le cose vanno male. Dove si trova questa radice affettiva? Nel passato delle proprie esperienze positive e significative: si chiama tradizione. Può essere la tradizione familiare come quella religiosa, quella etnica come quella dei propri gruppi, partiti, associazioni, movimenti. La tradizione è qui la forza affettiva sostanziale, quella piena di esperienze di bene, capace di riempire i vuoti di decreti ministeriali formali, nati di fretta e comunicati male.