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C'è anche una scuola dove i professori insegnano agli studenti

Stefano Basilico

L’idea rivoluzionaria della Michaela Community School a Wembley 

A poca distanza dal gigantesco arco bianco dello stadio di Wembley, in un palazzone che ospitava uffici governativi, c’è una scuola che fa discutere. La Michaela Community School è stata fondata nel 2014 dalla deputata conservatrice Suella Braverman e da Katharine Birbalsingh. Il nome è dedicato a Michaela Emanus, una collega docente che “credeva nel rigore, nei valori di una volta, in bambini che fanno i bambini con adulti a guidarli”.

 

Birbalsingh, dopo aver raccontato la sua esperienza di insegnante nella periferia londinese in un blog, venne invitata a parlarne nella Conferenza annuale del Partito conservatore nel 2010. Raccontò di un’educazione statale allo sbando, e chiese al governo di liberare le classi dal caos. Pochi giorni dopo venne licenziata e rimase per quattro anni fuori dall’insegnamento. Parallelamente, il governo di coalizione tory-libdem lanciò l’iniziativa per la liberalizzazione delle scuole, con accademie no-profit finanziate dallo stato e indipendenti dalle autorità locali. Da qui l’idea di fondare la Michaela Community School, fiorita insieme ad altre accademie che fanno rete con altre scuole per ottimizzare le proprie risorse. Dei quasi seicento studenti, la maggior parte fa parte di una minoranza etnica o viene da famiglie del proletariato urbano.

 

Criticato da sindacati e dagli ideologi dell’“Education, education, education” di stampo blairiano, il liceo londinese è nato con l’idea di scardinare un sistema educativo autoassolutorio, riportando la disciplina al centro del villaggio.

 

Nella “scuola più severa del Regno Unito”, basata sullo slogan “niente scuse”, si respira una disciplina asiatica, fondata sulla responsabilizzazione degli studenti. Si cammina in corridoio in fila indiana, senza parlare. La ragione? E’ nei corridoi scolastici che scoppiano la maggior parte delle risse e ci sono episodi di bullismo. Si viene puniti se si è un minuto in ritardo, se non si fanno i compiti a casa o se si fanno in maniera raffazzonata, se non si ha il materiale richiesto, se si fanno smorfie agli insegnanti. All’inizio dell’anno scolastico, c’è una settimana di “bootcamp” per imparare le regole e allenarsi a entrare rapidamente in classe.

 

Nel 2016 scoppiò una polemica per la decisione di responsabilizzare i parenti a pagare per il pasto in mensa, separando i figli degli insolventi dagli altri. La preside si giustificò, dicendo che in altre scuole chi non può pagare viene escluso e che i pasti gratuiti a disposizione vanno richiesti dai genitori, che devono essere a loro volta responsabili. Si mangia in tavoli da sei, con un insegnante: gli studenti servono il cibo, l’acqua, il dessert e puliscono.

 

Gli insegnanti sono in cima alla piramide: “Crediamo che i docenti sappiano più degli studenti”, spiegava Birbalsingh alla stampa, una tesi tanto banale quanto rivoluzionaria quando l’autorità è messa in discussione, in tempi in cui i professori vengono aggrediti da genitori e alunni. La filosofia della preside si basa su valori conservatori con “small c”: responsabilità personale, rispetto per l'autorità e senso del dovere. Ma tra i princìpi cardine della scuola ci sono anche gratitudine verso genitori e insegnanti, rispetto verso i compagni e compassione, con tolleranza zero verso il bullismo.

 

I critici di questo approccio sono numerosi e si danno da fare online, complice anche l’affinità politica della scuola alle liberalizzazioni dei conservatori, cui fanno da contraltare le proposte laburiste di riportare tutta l’educazione sotto il controllo delle autorità locali, minacciando financo la chiusura delle prestigiose scuole private per i rampolli delle élite.

 

I risultati, però, sembrano dare ragione all’approccio della Michaela. Nel 2017, i temutissimi ispettori ministeriali dell’Ofsted bollarono la scuola come “Eccellente”. Nei primi risultati dei GCSEs – uno degli equivalenti britannici dell’esame di maturità – la media è quattro volte superiore a quella nazionale. L’approccio della Michaela fa discutere, ma porta frutti.

 

Viene da chiedersi se li porterebbe anche in Italia, dove tra test Invalsi deludenti e docenti messi sempre più in discussione, è più che evidente la necessità di rivoluzionare il sistema scolastico.