foto LaPresse

Quando parliamo del voto ai sedicenni ricordiamoci dei (terrificanti) dati Invalsi

Antonio Gurrado

In Italia i 19enni escono da scuola con le competenze di un 14enne. I nostri ragazzi diventano maggiorenni “senza possedere le competenze attese necessarie per esercitare pienamente i diritti di cittadinanza”

Mentre va di moda discutere dell'evenienza di concedere il voto ai sedicenni, l'opinione pubblica sembra meno attratta dalla questione dei diciannovenni che escono da scuola come se avessero ancora quattordici anni. Eppure si tratta di un tema talmente rilevante che Roberto Ricci, il responsabile nazionale delle prove Invalsi, ha dedicato al riguardo un corposo editoriale di nove pagine sulla nuova categoria di “dispersione scolastica implicita” reperibile sul sito Invalsi Open.

 

Prima di addentrarsi nella disamina di dati e tabelle, agghiaccianti come sempre, è bene tenere presente alcune considerazioni. La prima è che non si tratta di novità. Ciò che Ricci descrive con preoccupazione è soltanto un effetto collaterale della notizia che già a luglio aveva destato scandalo salvo venire dimenticata, anzi rimossa in tempo record dalla coscienza degli italiani: solo i più tignosi, infatti, ricordano oggi che gli ultimi dati Invalsi certificavano come in intere regioni fosse abituale arrivare in quinta liceo con conoscenze indegne in italiano, matematica e inglese, destando il fondato sospetto che per una percentuale esorbitante di studenti andare a scuola per tredici anni della propria vita fosse del tutto inutile. Nel suo editoriale Ricci non fa che tradurre in termini piani ciò che qualcuno evidentemente fatica a leggere sfogliando i dati. “Una quota non trascurabile di studenti che conseguono il diploma”, scrive, “non raggiunge nemmeno lontanamente i livelli di competenza che ci si dovrebbe aspettare dopo tredici anni di scuola”.

  

 

La seconda considerazione è di natura tecnica. L'intuizione di Ricci, ciò che insomma ha consentito al suo editoriale di trovare spazio su giornali non totalmente sordi a questo problema immane, è di natura ermeneutica; non ha a che fare tanto coi dati, che quelli erano e quelli restano, quanto con una nuova maniera di leggerli, spietatissima. Ricci infatti prende atto di ciò che anche Il Foglio va scrivendo da tempo ed equipara i diplomati primi di competenze decenti a coloro che abbandonano la scuola prima del diploma o, più precisamente, del compimento del secondo ciclo di istruzione secondaria. Se si dovesse riassumere l'editoriale di Ricci in una sola riga, sarebbe questa: diplomarsi senza sapere abbastanza equivale, da un punto di vista sociale e umano, a non diplomarsi affatto.

  

 

Ricci ovviamente non può essere così tranchant ma il suo testo è poco meno drastico. Tecnicamente, enuclea la categoria di “dispersione scolastica implicita” in cui racchiude coloro che nelle prove Invalsi non arrivano a livello 3 su 5 nelle prove di italiano e di matematica o all'equivalente livello B1 nella lettura e nell'ascolto di un testo in inglese. Significa che in quinta liceo ha competenze pari a quelle richieste alla fine della scuola media: e si tratta di un 7,1 per cento degli esaminati in tutta Italia. Questa dispersione implicita viene equiparata da Ricci alla dispersione esplicita, che fa riferimento ai ragazzi di età compresa fra i 18 e i 24 anni che non hanno titolo superiore a un diplomino professionale di due anni da conseguirsi dopo la scuola media. Sono i cosiddetti ELET (Early Leavers from Education and Training) che in Italia ammontano al 14,5 per cento della popolazione scolastica (dati Eurostat). Ricci è consapevole che questa seconda cifra è una statistica solida mentre la prima si riferisce a fattori non perfettamente misurabili in maniera oggettiva; è però certo anche di come, con un po' di buon senso, si possa concludere che all'incirca il 20 per cento degli studenti italiani si disperde. Alcuni senza prendere il diploma, altri superando la maturità a calci nel sedere. I picchi sono in Sardegna (37,4 per cento di dispersione complessiva), Calabria (37 per cento) e Campania (33,1 per cento), mentre solo Veneto e Trentino riescono a tenersi sotto il 10 per cento, cioè il livello che l'Unione europea individua come limite massimo accettabile di dispersione in un paese membro. Se ne traggono alcune conseguenze.

 

Anzitutto, come spiega Ricci stesso, bisogna intervenire prima. Rendersi conto che un diciannovenne che ha impiegato tredici anni ad arrivare al livello della terza media è tardivo; accorgersi dei segnali tracciabili già dalla scuola primaria può invece consentire di intervenire e aggiustare l'aggiustabile. In secondo luogo, questi dati aprono una vasta e complessa questione didattica. Su cosa viene stabilito, infatti, quanta parte delle competenze richieste è stata conseguita da un allievo? Sulla base delle Indicazioni nazionali, numinoso appellativo di ciò che un tempo andava sotto il nome di programmi scolastici. Ora, delle due l'una: o i programmi che vengono stilati dal ministero e recepiti dalle scuole sono troppo ponderosi per la popolazione studentesca italiana, e quindi vanno rivisti al ribasso prendendo atto che i nostri ragazzi proprio non ce la fanno; oppure i professori chiamati alle nozze coi fichi secchi tendono a prendere molto alla lettera il fatto che i programmi siano solo Indicazioni, un ideale che resterà irraggiungibile all'orizzonte nebbioso.

 

La conseguenza più rilevante è tuttavia di natura sociale, non didattica. Ricci è chiarissimo al riguardo: i dispersi impliciti, che escono dalla scuola con lo stesso diploma dei loro coetanei più istruiti, “si apprestano ad affrontare la vita adulta con competenze di base insufficienti per muoversi autonomamente e consapevolmente nella società” e diventano cittadini pienamente responsabili (nonché elettori) “senza possedere le competenze attese necessarie per esercitare pienamente i diritti di cittadinanza”. Sono, appunto, quattordicenni nel corpo di diciannovenni, e lo resteranno per sempre nonostante lo stato abbia dato loro un pezzo di carta.

   

Infine, un paradosso. Su indicazione dell'Ue, l'Italia deve lavorare per ridurre il numero di ELET, senza dubbio. Ora, per combattere la dispersione esplicita la scorciatoia è abbassare il livello dei contenuti e della loro valutazione, come già si sta facendo da tempo; ciò aumenterebbe inevitabilmente la dispersione implicita. Al contrario, per combattere la dispersione implicita bisogna innalzare l'asticella della selezione, aumentando inevitabilmente la dispersione esplicita. Non se en esce. Forse però, contrariamente a quel che si pensa, la seconda opzione costituisce il male minore.

Di più su questi argomenti: