foto LaPresse

Controesame ai giovani “ignoranti” e digitali

Lorenzo Borga

Sulle capacità di apprendimento delle nuove generazioni prevale il pessimismo. Eppure si laureano più spesso che in passato, capiscono le informazioni meglio dei loro padri, sono più competenti rispetto a dieci anni fa

“Ragazzini promossi ma ignoranti”, “gli studenti italiani sono ignoranti”, “giovani senza cultura”, “i giovani sono ignoranti ma la colpa non è loro”, “giovani ignoranti, colpa della rete”. Questi sono alcuni titoli di giornale che i motori di ricerca mostrano se ci si interroga sulla capacità di apprendimento delle nuove generazioni. Un acuto pessimismo, che raggiunge il picco in occasione delle pubblicazioni annuali dei risultati dei test standardizzati, Invalsi e Pisa. Oppure per la pubblicazione – quasi periodica – di lettere di denuncia da parte di professori universitari sulla scandalosa ignoranza dei loro studenti. È chiaro che siamo di fronte a un cambiamento generazionale: il prossimo esame di maturità sarà affrontato da chi è nato nel 2001, e si è dunque alfabetizzato nell’era degli smartphone. È infatti la rivoluzione digitale la prima imputata del presunto declino cognitivo delle giovani generazioni.

 

L’allarmismo con cui viene affrontato l’argomento, tuttavia, rischia di allontanarci dalla complessità della realtà. Le forti preoccupazioni delle vecchie generazioni sulle capacità dei loro eredi (come vedremo, non nuova) tendono a nascondere tale complessità, con una pervicace semplificazione che – paradossalmente – rappresenta la vera accusa rivolta ai giovani. Vediamo altri virgolettati: “i figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori”, e anche “la nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani”, ancora “gli allievi insultano i professori” e “i figli rispondono male ai loro genitori”. Potrebbero essere parole d’oggi, invece sono attribuite ad alcuni autori greci vissuti più di due millenni fa (per quanto non sia riuscito a verificarne l’autenticità). Ciò a dimostrare quanto scritto: il pessimismo verso il futuro altrui è una costante.

 

Un pessimismo che non basta tuttavia a decodificare la complessità. Come spesso accade, abbiamo bisogno di numeri e dati per capirci meglio.

 

Boom di analfabeti funzionali tra i giovani?

Per farlo, possiamo partire dal famigerato analfabetismo funzionale, che coinvolge chi – benché sappia leggere, scrivere e svolgere calcoli di base – non riesce a elaborare, valutare e usare le informazioni che raccoglie. Non si riesce dunque a comprendere un libretto di istruzioni di un cellulare, o risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. Negli ultimi tempi si sono letti molti numeri allarmanti sul tema, come quello per cui sarebbe analfabeta funzionale quasi la metà della popolazione italiana (dati Unesco). In realtà chi in Italia ricade nella categoria, secondo l’indagine Piaac dell’Ocse che raccoglie dati sull’istruzione degli adulti, è meno del 30 per cento. Una percentuale comunque preoccupante: è il doppio della media internazionale. Se spacchettiamo però questo numero per fasce d’età, ci accorgiamo che in tutti i paesi, Italia compresa, la percentuale di analfabeti funzionali aumenta con il crescere dell’età. Tra i 16 e i 24 anni, circa 1 italiano su 5 è analfabeta funzionale, mentre tra chi ha superato i 55 anni si raggiunge la percentuale “monstre” del 40 per cento. I più giovani dunque non sembrano proprio essere più ignoranti di adulti e anziani. I ricercatori dell’Inapp, che hanno analizzato i dati del 2012, comunque sostengono che il fattore generazionale non sia l’unico da tenere in considerazione. Se infatti teniamo conto anche del titolo di studio, appare problematica tra i diplomati e laureati anche la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, in cui la percentuale di analfabeti funzionali cresce enormemente rispetto ai giovanissimi. Probabilmente per effetto della disoccupazione giovanile e della precarietà del lavoro negli anni della crisi economica. La classe d’età 16-24 anni invece, l’unica che nel 2012 aveva assaggiato la rivoluzione del web sin dall’infanzia, risulta essere quella con il minor tasso di analfabetismo funzionale, smentendo molte delle preoccupazioni.

 

I test Pisa

A questo punto i critici potranno però controbattere che in realtà il vero confronto utile non è tra giovani e il resto della popolazione (impari, perché ogni età comporta diverse attitudini e capacità cognitive), ma tra i giovani di oggi e quelli di ieri. Questo è vero: non basta, per la nostra analisi, verificare il livello di apprendimento e competenza dei giovani di oggi rispetto ad adulti e anziani. Se vogliamo capire se chi è nato a ridosso degli anni Novanta e Duemila sia più ignorante di chi li ha preceduti in passato, dobbiamo fare un confronto anche tra i ventenni nel secolo scorso e quelli di oggi.

 

In questo senso, ci vengono in aiuto altre statistiche rilasciate dall’Ocse. Questa volta le rilevazioni sono del programma Pisa, che raccoglie dati sull’istruzione degli studenti nei paesi membri attraverso i famosi test a crocette. Sono le statistiche che ci vedono spesso ai margini delle classifiche: nel 2015 gli studenti italiani 15enni si sono posizionati in 26esima posizione sulla matematica, 30esimi sulla lettura e 31esimi in scienze, sui 44 paesi rilevati. Ma per comprendere se c’è stato davvero un peggioramento delle performance degli studenti dobbiamo prendere in considerazione più anni. In questo modo scopriamo che a partire dai primi anni Duemila, nel corso delle diverse rilevazioni, gli studenti italiani sono migliorati, e non – come sostiene la vulgata – peggiorati. In matematica c’è stato l’aumento di competenze più marcato, di quasi il 5 per cento. In scienze dell’1,2 per cento, mentre in lettura siamo leggermente peggiorati, ma di meno di mezzo punto percentuale. Tutto ciò in un contesto generale in cui la media Ocse è calata negli anni, o al più è stazionaria.

 

Un miglioramento continuo

La stessa versione della storia la ritroviamo anche nei dati sui tassi di istruzione, appena pubblicati ancora dall’Ocse nel suo rapporto annuale sull’istruzione. Lo sappiamo bene, come l’abito non fa il monaco, il titolo di studio non è per certo un segnale di intelligenza e competenza. Ma è chiaramente un forte indizio. Andando a ritroso nel tempo, in Italia solo il 7 per cento dei giovani tra i 25 e 34 anni poteva vantare una laurea. Oggi invece sono quasi il 28 per cento, quattro volte tanto. Si tratta di un aumento quasi doppio rispetto alla media degli altri paesi, che tuttavia si posizionano su percentuali molto più elevate di quelle italiane. L’aumento è costante anche negli anni della crisi, come mostra il tasso di raggiungimento della laurea, passato dal 34,5 per cento al 38 negli ultimi cinque anni.

 

La statistica dis-informativa

Contribuisce alla confusione sul tema anche l’approssimazione con cui alcuni media hanno trattato i risultati degli ultimi test Invalsi. A giugno la notizia che aveva fatto discutere era stata che, nell’ultimo anno di scuola media, uno studente su tre risultasse senza le competenze minime. Alcuni erano stati più netti: “un alunno su tre esce da scuola analfabeta”. Secondo il sito Roars.it, aggregatore di dibattiti su università e ricerca, questa lettura è profondamente scorretta e nasce da un uso distorto dei dati. Secondo gli animatori del sito, il sistema di valutazione Invalsi sarebbe basato sul “modello di Rasch, un modello di psicometria per il quale, necessariamente, 1/3 delle prove risulta sotto un valore soglia”. Insomma, uno studente su tre è finito sotto il valore minimo per costruzione del test, e non per l’effettivo risultato generale. Questa metodologia è particolarmente utile infatti non per misurare la percentuale annua di studenti sotto una certa soglia (fissa, per costruzione), bensì – per esempio – per verificare le differenze regionali. Secondo Roars.it, “le domande sono selezionate e adattate in tutto il processo di pre-test in modo che appunto l’esito dei test segua questa distribuzione”. I titoli che abbiamo letto, purtroppo, non fanno che alimentare la disinformazione su temi sensibili come la qualità della scuola italiana e lo stato di salute delle nuove generazioni.

 

Un pessimismo indimostrabile

I giovani di oggi capiscono meglio le informazioni dei loro padri e nonni. Molto più spesso che in passato raggiungono la laurea. Sembrano essere leggermente più competenti in tutte le materie fondamentali rispetto a un decennio fa. Questi numeri sono semplici indizi, ma indicano una direzione ben precisa: con tali dati alla mano, è decisamente complicato dimostrare un peggioramento delle abilità intellettive dei più giovani, che invece in tanti vanno suggerendo. Anzi, sembra vero il contrario, senza pretese di scientificità. Come abbiamo già sottolineato, il pessimismo sulle capacità cognitive dei giovani d’oggi spesso si mescola al timore per gli effetti della tecnologia sugli stili di vita e sui modelli concettuali esistenti. In effetti alcune preoccupazioni sembrano giustificate. Le continue interruzioni della vita reale dovute alle notifiche sullo schermo dello smartphone e la contrazione delle ore di sonno possono comportare una perdita cognitiva e una riduzione del livello di attenzione del nostro cervello. D’altra parte le tecnologie ci consentono un accesso continuo e completo alle informazioni inimmaginabile fino a quindici anni fa. Valutare se abbiano portato più benefici o malefici sulle competenze dei più giovani è compito arduo, e forse in fondo inutile. La domanda più interessante è invece probabilmente opposta, come ha suggerito Alessandro Baricco nel suo ultimo libro (The Game di Einaudi, 2018): non chiediamoci quale rivoluzione mentale è causata dalla rivoluzione tecnologica, ma domandiamoci quale rivoluzione mentale abbia condotto alla rivoluzione tecnologica. Un punto di domanda che ci aiuterà anche a comprendere meglio le nuove generazioni. Dati alla mano.

Di più su questi argomenti: