Quello che gli influencer non dicono
La parabola la conosciamo: microcelebrity, influencer, personal branding e invito a Harvard a spiegare come sei riuscito a fregare tutti. Ma quanto durerà? The American Meme, un documentario su Netflix
Ci siamo sentiti tutti molto vecchi almeno una volta. È successo quando abbiamo visto ragazzini tatuati in faccia, ascoltato per la prima volta la trap, scoperto che c’è chi guadagna giocando a videogiochi (i video più visti su YouTube sono di mocciosi che sparano allo schermo), appreso che con una foto su Instagram ci si può comprare una bella macchina (e noi ce le facciamo gratis, e contiamo i like uno a uno). Tutte le volte ci siamo chiesti “chi è questo pirla?”, e ci siamo lamentati col sistema perché siamo cresciuti con l’idea (sbagliata) che una persona senza talento è condannata al fallimento, e invece gli ultimi della classe, grazie a (per colpa di?) internet sono diventati i primi. E noi siamo rimasti lì a guardare.
In futuro tutti avranno quindici milioni di follower. E il futuro è adesso. La parabola la conosciamo: microcelebrity, influencer, personal branding e invito a Harvard a spiegare come sei riuscito a fregare tutti gli altri che ci hanno provato. Non è una novità, ogni ragazzino vuole diventare famoso. Se un tempo sognavamo di fare i calciatori e gli attori, poi di fare i tronisti o le veline, oggi sognamo di essere influencer, cioè gente con il talento di farsi seguire da milioni di persone. Nell’era in cui il successo è misurabile, avere un pubblico ti può fare diventare ricco. In The American Meme (Netflix) documentario di Bert Marcus, troviamo Fatty Jewsh (un clown dell’apocalisse, ha scritto Variety), Kirill Bichutsky (un incrocio tra Weegee, Girls Gone Wild e Jackass, che tradotto significa un fotografo che organizza feste in cui spruzza champagne sui seni delle ragazze e rischia il coma etilico ogni sera, vestito da unicorno), Brittany Furlan (una ex star di Vine, parlandone da vivo, il servizio di micro-blogging di brevi video chiuso nel 2015), e Paris Hilton, o the original influencer.
La prima cosa che fa Paris Hilton sveglia è la più comune: controllare le notifiche. Facebook, Twitter, Instagram, Wechat, Snapchat, Pinterest. È su un aereo per 250 giorni all’anno e incontra ragazzi da tutto il mondo che la comparano a Gesù o Madre Teresa di Calcutta, e non si sa dove finisca il camp e inizino a crederci. Paris Hilton è la madre di tutte le Kim Kardashian (che è stata sua stagista), e di quelle famose senza talento ma con un capitale sociale enorme (oltre che economico, essendo ereditiera della catena di alberghi). Prima i servizi fotografici, il filmino hot rubato e lo slut shaming (prima di lei Pamela Anderson, dopo di lei Kim Kardashian e molte altre), poi il reality tv Simple Life in cui insieme a Nicole Richie fa la viziata costretta alla manovalanza, le apparizioni al Letterman e le parodie a South Park, i flop musicali estivi, i dj set in discoteca come una Nicole Minetti qualsiasi (ma pagata milioni), la linea di profumi, di borse, di trucchi. Un’imprenditrice digitale. Eppure c’è ancora chi si chiede che lavoro faccia.
Siccome il documentario è stato presentato al Tribeca Film Festival non può mancare il contenuto. E il messaggio è: state attenti a quello che desiderate, bambini. Uno degli effetti della disintermediazione è che c’è gente disposta a guardare di tutto e gente disposta a tutto pur di farsi guardare: mangiare detersivo, darsi fuoco, tatuarsi un meme (cioè i fumetti anti-narrativi di chi sta molto su internet). Un uomo può persino ingollare 40 kinder fetta al latte e un pollo rafforzante e rischiare l’infarto, e dire: “Ho sempre voluto farlo”. Lo fa per compiacere noi o ci crede? Se cade morto stecchito in cucina senza nessuno a riprenderlo, farà rumore?
A un certo punto nel film, Emily Ratajkowski, la modella diventata famosa perché ama molto mostrare le tette, dice “che c’è di male nel volere visibilità?” e il documentario sembra volerle rispondere. A volte le cose sfuggono di mano, c’è l’accusa di sessismo per Kirill, di razzismo per gli sketch della Furlan, di plagio per Fat Jewish (ma fin qui, tutto normale). Poi però appare Logan Paul: è quello youtuber che ha filmato il cadavere di un suicida nella foresta giapponese, scherzando con gli amici come se si trattasse di un pupazzo. Ed è straziante, certo, sentire che Brittany Furlan a scuola si automutilava perché non accettava il proprio naso (oggi sta con Tommy Lee, e capiamo che è cambiato il modo di non volersi bene) ma è ben peggio che non sia mai riuscita a diventare un’attrice (rimarrà sempre e solo quella respinta alle audizioni come quella simpatica che si faceva fare le scoregge in faccia dal cane). Eppure era una delle persone più influenti per Time nel 2015 grazie ai video su Vine. Oggi ha meno fan su Instagram di Alessia Marcuzzi.
E se fosse una bolla destinata a esplodere? E se avesse ragione Fat Jew: “Ve lo dico, l’era degli influencer sta per finire”, e se avesse ragione DJ Khaled, ossessionato dalle dirette Snapchat, a metterci in guardia sul fatto che invecchiando siamo sempre meno appetibili? Per quanto si è disposti a girar e per discoteche, fingere di divertirsi, cadere in acqua in video slapstick, ubriacarsi sera dopo sera? O per quanto siamo disposti a dare la nostra attenzione prima di stancarci e passare al prossimo, o prima che l’intero sistema collassi. Serve monetizzare in un altro modo. E quindi proprio Fat Jew s’è inventato con Paris Hilton un nuovo ramo dell’imprenditoria di nicchia, che poi è molto vecchio: il rosé in lattina (c’è qualcosa di più americano?), per rimanere vivo, per essere rilevante, per avere un ruolo nella società si deve necessariamente passare da hey guardami a hey comprami. Finché dura.