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Che cosa manca all'europeismo per essere davvero efficace

Massimo Adinolfi

L’Ue ha bisogno di un patto sociale che tocchi altre dimensioni oltre alla nobiltà dello spirito e all’esercizio dei diritti

Esiste un popolo europeo? No. Si può fare uno stato senza un popolo? No. Dunque non si può fare dell’Unione europea uno stato. Fine dell’europeismo? Sì, se non c’è altra soluzione all’infuori di quella statale. No, se esiste un’altra soluzione: quella dell’Unione federale. Il decoupling al quale Sergio Fabbrini ha dedicato lo scorso anno un libro (“Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa) prospetta questa ipotesi: che si possa distinguere e separare l’Europa del mercato unico da un’Europa politica. Il punto essenziale è però che questa più ristretta Europa politica sia organizzata non in uno stato federale, ma in un’unione federale di stati, senza fusione né confusione di livelli e competenze. E con una piena legittimazione democratica del potere federale. Ben distante, insomma, dall’Unione come la conosciamo oggi: con un deficit democratico profondo, accentuatosi negli ultimi anni di crisi, di fatto appesa alle decisioni non della Commissione o del Parlamento di Strasburgo ma del Consiglio europeo dei capi di governo. Cioè dei governi nazionali e, infine, della cancelliera Angela Merkel.

 

Per i particolari di questo progetto, vedi alla voce: “riforma delle istituzioni”. E valuta pure l’ipotesi di una nuova costituzione, magari preceduta da una solenne dichiarazione inaugurale dei popoli europei, che segni un nuovo inizio. Qui, però, cominciano i guai. Perché ben sappiamo, almeno in Italia, cosa abbia voluto dire provare a cambiare il Paese e la politica attraverso il sentiero stretto delle riforme, sotto la guida di governi debolmente legittimati. Referendum perso, capitale politico sprecato, e lancette precipitosamente all’indietro.

 

L’anno scorso Mondadori ha ripubblicato, a distanza di settant’anni dalla prima edizione, i “Moniti all’Europa” di Thomas Mann. E’ il Mann che nel 1922 (siamo a Berlino, all’epoca di Weimar), dinanzi a una gioventù bellicista e nazionalista che protesta e rumoreggia, sceglie di celebrare le idee repubblicane, democratiche, progressiste. Sceglie, lui che era e si dichiarava un conservatore, di collocare il valore dell’umanità nel futuro, anziché nel passato. Sceglie di citare Walt Whitman, il “tonante poeta di Manhattan”, lui che era e si sentiva profondamente tedesco. Bene, il discorso appena ripubblicato ha la prestigiosa introduzione di Giorgio Napolitano, che descrive lo scenario di quegli anni: “Nello scacchiere politico, la forza maggiore che espresse una strategia costruttiva fu senza dubbio il partito socialdemocratico, che si identificò con tentativi e prove di “grande coalizione” […], ma venne pesantemente condizionato dal dissenso della sua radicale ala sinistra”. Come andarono le cose si sa, e non c’è bisogno di cambiare qualche termine per apprendere la lezione.

 

“Reductio ad hitlerum” ed esempi nostrani a parte, dove si trovano in Europa le forze reali capaci di intestarsi un’ambiziosa strategia costruttiva di riforma delle istituzioni? Necessaria, certo, quanto sono necessari i compromessi di cui è punteggiata la storia europea, ma allo stesso tempo piuttosto lontana dalla verità effettuale della cosa - per dirla con le parole di un classico del realismo politico, Machiavelli.

 

Dinanzi al fatto, difficilmente contestabile, che l’Unione europea così com’è non funziona, il discorso di gran lunga oggi prevalente è quello di rientrare nei confini domestici (i trattati passano, i popoli restano), e smantellare quel poco o tanto di architettura sovranazionale che si è provato a costruire dall’89 in poi. Poco importa che l’Europa che oggi gode di così cattiva stampa non è in realtà l’Europa comunitaria, ma è l’Europa dei capi di governo: questa viene assunta se mai come la prova che l’idea di esportare la democrazia non funziona nemmeno a Bruxelles. Ed è nello stesso modo che ti venderai anche la bocciatura da parte della Commissione alla quale andrà inevitabilmente incontro la “manovra del popolo” varata dal governo, così da farci pure la prossima campagna elettorale: in nome del popolo italiano, non certo di quello europeo. E così torna il ritornello: non esiste uno Stato europeo, non c’è e non ci può essere un popolo europeo. Dunque: prima gli italiani.

 

Forse l’europeismo non può svolgere i suoi compiti solo dal lato istituzionale. Ortega y Gasset diceva che l’Europa è l’unico continente ad avere un contenuto, ed aveva in mente un contenuto di idee, di cultura, di umanità. Quello, forse, ce lo stiamo già giocando. Ma intanto l’Unione ha bisogno di più: di tenersi insieme con un patto sociale di cittadinanza vero e profondo. Che tocchi altre dimensioni, oltre la nobiltà dello spirito e l’esercizio dei diritti politici e civili. E scongiuri il momento in cui si tratterà di scegliere fra la pericolosa patacca della democrazia cristiana autoritaria e illiberale di Orbán, e un liberalismo étriqué, in cui l’idea democratica sopravvive solo come metodo istituzionale. Perché di questo passo quel momento rischia di arrivare, e, se così fosse, l’Europa avrebbe – temo – partita persa.

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