Come ripensare la verità

Sergio Belardinelli

Abbiamo ridotto la realtà alle sue rappresentazioni: un brodo di coltura ideale per non distinguere più tra informazione e propaganda, tra informazione e manipolazione

Perché oggi la rete, con la gran massa di informazioni che produce, ci appare così problematica e ambivalente, ricca di opportunità ma anche di pericoli?

 

Cinquant’anni fa avremmo detto che la libertà poteva essere minacciata dalla scarsità delle informazioni, ma a nessuno sarebbe venuto in mente che potesse essere minacciata dall’eccesso. Più informazione uguale a più libertà: questo l’assioma dominante in tutta l’epoca moderna. Ma oggi sentiamo che le cose stanno cambiando. Perché? Le ragioni sono molteplici. Ne elencherò alcune.

 

Anzitutto perché sembra che i media e la rete non siano più dei semplici “mezzi” di comunicazione. Essi sono penetrati così pervasivamente nella nostra vita, da apparire ormai come il vero e proprio “ambiente” in cui viviamo. Se ieri i mezzi d’informazione riproducevano in qualche modo una realtà pre-esistente, oggi essi producono la realtà nell’atto stesso di rappresentarla; non si limitano a trasmettere informazioni, ma danno forma alla nostra stessa esperienza della realtà; sono cioè dei veri e propri costruttori di realtà sociale. La famosa rappresentazione della prima guerra del Golfo, con Baghdad illuminata dai razzi traccianti e dalle bombe come in un videogioco, è soltanto un pallido esempio della potenza di cui i media sono diventati capaci. Assistiamo a una crescente discrasia tra la realtà e la sua costruzione mediatica, a un depotenziamento della realtà a tutto vantaggio delle sue rappresentazioni, diventate una sorta di a-priori di ciò che facciamo. Dal pranzo della domenica, alle vacanze, allo sgozzamento degli infedeli, tutto insomma sembra fatto per darne notizia su WhatsApp, Instagram, Facebook o YouTube. Una “spettacolarizzazione” della vita, direbbe Guy Debord, che, anziché star dietro agli eventi, piuttosto li precede.

 

Quando Niklas Luhmann parla dei media come di sistemi autoreferenziali, dove l’essenziale della notizia è rappresentato semplicemente dalla sua “notiziabilità”, non certo dal rapporto che questa intrattiene con la realtà, ci dice con radicale brutalità di che cosa stiamo parlando. Abbiamo ridotto la realtà alle sue rappresentazioni: un brodo di coltura ideale per non distinguere più tra informazione e propaganda, tra informazione e manipolazione, tra verità e fake news.

 

A proposito di fake news vorrei fare una piccola annotazione. E’ ovvio che nella storia degli uomini esse ci sono sempre state; è certo però che il tempo presente e i nuovi media ne amplificano enormemente la possibilità; soprattutto direi che la cultura nella quale siamo immersi, ostile com’è all’idea di verità, potrebbe persino legittimarle come del tutto “normali”. In fondo, se ci pensiamo bene, una certa cultura politicallycorrectha gettato discredito per decenni sull’idea di verità, considerandola come una sorta di arcaismo illiberale, del tutto indegno di essere preso sul serio. Fa quindi un po’ specie che proprio dal fronte di questa cultura, a seguito soprattutto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, si siano incominciate a levare le preoccupazioni più accorate per un dibattito pubblico che non riesce più a distinguere tra la verità e la menzogna. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Tanto di guadagnato, se veramente ci stiamo rendendo conto che la libertà e la democrazia hanno bisogno della verità. Se però questi signori avessero preso sul serio un po’ prima il problema di cui stiamo parlando, forse non saremmo al punto in cui siamo.

 

C’è voluta insomma l’irruzione sulla scena politica di soggetti imprevisti e magari pericolosi (Trump, i sostenitori della Brexit, Putin, i propagandisti dell’Isis, tanto per citarne alcuni), capaci di utilizzare i media molto meglio e in modo assai più spregiudicato dei soggetti che fino a oggi si erano autolegittimati a farlo, perché incominciassimo a ripensare seriamente la questione della verità. A ogni buon conto su questa questione torneremo, poiché la ritengo cruciale.

 

Vorrei richiamare invece un’altra ragione per cui il vecchio assioma “più informazione uguale più libertà” sembra messo oggi in seria fibrillazione.

 

In un libro uscito di recente, dal titolo #Republic, Cass Sunstein dedica pagine molto interessanti al rischio che i social media e l’overdose di informazione possano alterare la capacità dei cittadini di autogovernarsi. Da una parte, almeno in linea di principio, è cresciuto sicuramente il potere delle persone di filtrare ciò che vedono, leggono o ascoltano; dall’altra però esiste anche un crescente potere di filtraggio da parte dei provider sulla base di ciò che essi conoscono di noi. Non è soltanto un problema di privacy, ovviamente, per quanto anche questo sia un problema serio; non è neanche principalmente un problema di selezione di ciò che è vero e ciò che è falso. E’ piuttosto un problema di orizzonte, il rischio che si veda soltanto ciò che altri decidono di farci vedere.

 

Ma stranamente l’attenzione viene posta soprattutto sul rischio che internet diventi veicolo di menzogne o di vilipendio indiscriminati. E allora ecco la preoccupazione, espressa di recente anche dal presidente francese Macron, di trovare soluzioni giuridiche al problema, che, in un modo o in un altro, finiscono sempre per riproporre la censura. Una riduzione drastica di complessità che rappresenta il peggior nemico della libertà. Ciò che intendo dire è che la libertà d’opinione è una prerogativa che non si discute; l’aumento delle opzioni, di per sé, è senz’altro una cosa buona; per quanto mi riguarda, resto saldamente ancorato al vecchio assioma da cui sono partito: più informazioni circolanti, uguale più libertà. Ma proprio se vogliamo difendere queste prerogative, dobbiamo guardare anche ad altre, che non sono meno necessarie per la salvaguardia della libertà di quanto sia la semplice libertà di scelta. Una società di persone libere non ha nulla da guadagnare da un contesto mediatico in cui ognuno, prevalentemente e sempre di più, guarda soltanto ciò che gli piace vedere, aiutato in questo da “News Feed” che, grazie ad accurati algoritmi, ci fanno trovare sui nostri congegni elettronici le notizie già selezionate secondo i nostri gusti. Twitter avrebbe dovuto generare una nuova “piazza”, la piazza digitale, appunto, ma persino uno dei suoi fondatori ha dovuto ammettere che non è stato così. Anziché apertura ad altri mondi e ad altre persone, questi media interattivi hanno finito per rafforzare la tendenza a incontrarsi con i propri simili, con coloro che la pensano come noi, trasformandosi in una sorta di “echo chamber”, di cassa di risonanza, come la chiama Cass Sunstein, che finisce per chiuderci sempre di più nel nostro mondo, precludendoci la possibilità di incontrare davvero la diversità: fastidiosa quanto si vuole, ma occasione formidabile di crescita, banco di prova insostituibile per le nostre convinzioni e la nostra libertà. E’ ben strano dunque che il mondo virtuale, sebbene produca una diversità di vedute addirittura esorbitante, finisca spesso per essere limitato a quello che vogliamo, molto più omogeneo e accondiscendente di quanto sia quello reale.

 

Non intendo ovviamente demonizzare i social media. Sono anzi certo che essi potrebbero svolgere, e spesso svolgono effettivamente, anche un ruolo positivo al servizio della libertà. Basti pensare soltanto alla paura che ne hanno i regimi politici più dispotici. Il problema del rapporto tra Internet e libertà è insomma un “problema aperto”, come si dice nel titolo di questo nostro incontro. Ritengo tuttavia che la sua soluzione non stia tanto o soltanto nella rete, quanto altrove, diciamo pure nell’ ethos complessivo della società. Ben venga comunque anche la rete, se ci offre l’occasione e quasi ci costringe a fare i conti con i problemi di cui stiamo parlando.

 

In un recentissimo articolo sul “New York Times” (11/1/2018), a firma di Mike Isaac, Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, ha dichiarato che intende “ripensare radicalmente il sistema”. Se Facebook è uno strumento che, come tutti gli strumenti, può essere usato per il bene o per il male, allora dobbiamo “capire in che cosa consiste il cattivo uso che se ne può fare e migliorarci”. I primi cambiamenti riguarderanno il “feed News”: entrando nel sistema di Facebook gli utenti non troveranno più la pubblicità o la selezione delle notizie dei grandi Network, bensì post o temi che hanno già suscitato l’interesse degli amici (si fa l’esempio della foto di un cane o di eventi familiari). “Vogliamo essere sicuri – dice Zuckerberg – che i nostri prodotti, più che divertenti, siano utili alle persone”. E siccome pare che anche Zuckerberg si senta un po’ in colpa per la disinvoltura con la quale certe fake news sono state lasciate circolare durante l’ultima campagna americana, pare che adesso ci sia una gran voglia di ravvedimento. “Se il nostro compito è quello di aiutare le persone a costruire relazioni, allora bisogna cambiare”. Non si tratta più di proporre i “contenuti più significativi”, ma di facilitare “il maggior numero di relazioni significative tra le persone”, anche a rischio di perderci qualche cosa in termini di denaro. In sostanza “occorre essere sicuri che il tempo speso su Facebook sia tempo ben speso” e il 2018, nelle intenzioni di Zuckerberg, sarà “un anno importante di auto miglioramento per decidere insieme quali saranno i nostri prossimi obbiettivi”.

 

Non so voi, ma io sento in queste parole un vago e fastidioso sapore di paternalismo. Comprendo bene le preoccupazioni che stanno dietro; se volete, ne apprezzo anche le buone intenzioni. Ma, almeno secondo me, né il problema del rapporto tra internet e libertà, né quello del rapporto tra internet e verità sono problemi che possono essere risolti in questo modo. Il problema del cattivo uso della rete non può trovare nella rete la sua soluzione. Detto in estrema sintesi, questo problema riflette un impoverimento culturale che andrebbe compensato altrove, nella società in generale e soprattutto nella scuola: guarda caso, il luogo dove da decenni vengono bistrattate la libertà e la verità. La rete ci mostra soltanto in modo abnorme che cosa siamo diventati e che cosa significa ridurre la libertà al semplice capriccio di fare ciò che ci piace, di scegliere quindi, nella miriade di opzioni che la rete ci mette a disposizione, l’opzione che ci piace di più, trascurando completamente il fatto che la libertà non è soltanto scelta, bensì anche consapevolezza di ciò che si sceglie.

 

Su questo punto non vorrei essere frainteso. Nessuna nostalgia per il mondo di ieri. Non penso che la scuola di ieri fosse una scuola di libertà più di quanto lo sia oggi. Semmai oggi, anche grazie alla rete, ci rendiamo conto più di ieri di quanto sia cruciale che la società si interroghi su questo tema. In ogni caso, avere molte opzioni è sicuramente un bene per la libertà. Nessun uomo può dirsi libero se si trova costretto a scegliere sempre la stessa cosa. Ma non può dirsi libero nemmeno un uomo che sceglie “alla cieca”, senza sapere perché fa quella scelta anziché un’altra. Una scelta cieca non è una scelta libera. Di qui l’importanza dell’educazione e della formazione. Anche la libertà bisogna in qualche modo impararla. E questo è tanto più importante quanto più la gran quantità di informazioni che troviamo in rete esige capacità di selezione. E’ questa capacità di selezione che trasforma la rete in uno strumento formidabile di crescita anche della nostra libertà.

 

Un’ultima considerazione sulla verità. Dopo aver eroso irresponsabilmente i presupposti che la rendevano possibile, non vorrei che certa cultura (penso soprattutto ai paladini del politicamente corretto) pretenda di ridarsi un contegno, facendo della verità il vessillo di una nuova battaglia culturale contro la menzogna e la disinformazione. Che Donald Trump abbia fatto delle fake news un uso, diciamo così, scientifico, non significa che le fake news siano una sua invenzione. Come ho detto all’inizio, nella storia dell’uomo ci sono sempre state. Semmai la peculiarità di oggi è che, a rigore, grazie alle decostruzioni operate dai soloni del relativismo, sta diventando sempre più difficile distinguere una bufala da una notizia vera. Inoltre non vorrei che si ricominciasse a parlare di verità soltanto perché vogliamo un nuovo criterio di censura. Hanno diritto di libera circolazione soltanto le notizie vere. Da liberale all’antica, amante della tradizione filosofica classica (Platone e Aristotele, per intenderci), questa idea di verità non mi piace. E non mi piace per almeno due motivi: uno, diciamo così, politico; un altro filosofico. Quello politico mi induce a dire semplicemente che in una società liberale è molto meglio che una bufala possa circolare liberamente, piuttosto che vi sia un ministero della verità che stabilisce quali sono le notizie che hanno diritto di circolazione. Il motivo filosofico riguarda invece l’oggettiva impossibilità che i fatti abbiano una, e una sola, interpretazione vera. Se dico che la somma degli angoli interni di un triangolo è 200 gradi, la mia affermazione è falsa, perché la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi. Punto. Ma se dico che la prima guerra mondiale è scoppiata per via dell’assassinio a Sarajevo dell’Arciduca Francesco Ferdinando o dico invece che è scoppiata per via dell’ostilità delle Nazioni europee nei confronti dell’Impero asburgico, faccio su di uno stesso evento due affermazioni differenti, ma entrambi plausibili, senza che nessuna delle due possa essere considerata falsa. Quando si raccontano i fatti, la verità è insomma molto più scivolosa e ambivalente. Come diceva Kant, un pizzico di verità si trova anche nell’opinione più stravagante che può trovare credito tra gli uomini. Il pluralismo dell’informazione si fonda non tanto sul fatto che tutti hanno ragione allo stesso modo, quanto piuttosto sul fatto che nessuno sbaglia mai totalmente in ciò che dice. La realtà, per nostra fortuna, è così ricca che nessuno può abbracciarla in toto. Le nostre ricostruzioni sono sempre prospettiche, parziali, limitate. Per questo, tra le altre cose, possiamo sempre imparare anche dalle ricostruzioni altrui. Come vado dicendo da anni, quando si parla della circolazione delle notizie e della loro cosiddetta oggettività, bisogna sempre considerare che in questo campo, quello delle notizie appunto, il contrario del vero non è quasi mai il falso, quanto piuttosto la menzogna intenzionale. Per questo c’è bisogno di deontologia professionale da parte di chi le notizie le produce e un’analoga passione per la verità da parte di chi le legge; occorre saperle divulgare e apprezzare, a prescindere che rafforzino o meno le nostre convinzioni o i nostri pregiudizi. Esiste questo ethos nella nostra società? Non mi pare. Perché allora sorprenderci se non lo ritroviamo neanche in internet? Si tratta di un ethos, al quale certamente internet potrebbe dare il suo contributo. Data la velocità con la quale è capace di trasformarsi, non possiamo escludere, ad esempio, che domani sia proprio la rete a facilitare, che so, l’individuazione di un criterio che ci consenta di distinguere le fonti autorevoli da altre che non lo sono. Ma certamente, lo ripeto ancora una volta, questo ethos va coltivato un po’ in tutte le relazioni sociali, nella scuola e nelle istituzioni educative in generale. La libertà ha bisogno di questo spirito di verità. Il quale, a sua volta, pur avendo il suo criterio nella realtà, non nelle opinioni di chicchessia, pur essendo insomma assai poco democratico, ci suggerisce tuttavia che è molto meglio lasciar circolare liberamente anche le menzogne piuttosto che imporre la verità con la forza. L’importante è che non si perda il senso della differenza tra le une e l’altra. In ogni caso il problema è aperto.

 

 

Pubblichiamo un’ampia sintesi dell’intervento tenuto da Sergio Belardinelli al Festival della Cultura e della Libertà che si è tenuto a Piacenza il 27 e 28 gennaio scorsi

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