L'anno che verrà

Per l'Italia (e per Meloni) c'è da augurarsi un 2024 con più Ursula e meno Trump

Claudio Cerasa

Il sostegno all’Ucraina, le prospettive post voto alle europee e alle regionali, il dilemma di Meloni trumpismo ed europeismo, l’incognita del Pd e quella dell’economia. Una bussola per l’anno che verrà, con sprazzi di ottimismo

Arriva il nuovo anno, arrivano nuove sfide, arrivano nuovi equilibri, arrivano nuove coordinate per orientarsi in un mondo che a partire dall’Italia è destinato a cambiare, con l’anno che verrà. In meglio o in peggio? Proviamo a vedere insieme, cercando di selezionare, a ridosso della conferenza stampa di fine anno di Giorgia Meloni, alcune curve che ci permetteranno di capire in quali passaggi l’Italia dovrà mostrare di avere al volante piloti degni di questo nome. 

 

Ucraina

È il passaggio politicamente più importante dell’anno che verrà. La discesa in campo di Donald Trump determinerà nuovi equilibri nella destra mondiale e soprattutto in quella europea. Il messaggio purtroppo dirompente che arriverà dall’America a causa della candidatura di Trump sarà grosso modo questo: l’Ucraina è un problema europeo e deve essere l’Europa a occuparsene e non l’Italia. America First, ricordate? Il messaggio costringerà i trumpiani d’Europa a scegliere da che parte stare. Per i trumpiani che si trovano all’opposizione non sarà difficile dire: basta sprecare soldi in una guerra impossibile da vincere. Come in America, anche l’Europa ha la sua campagna elettorale e le opposizioni le tenteranno tutte per raggranellare uno zero virgola. Per i trumpiani che si trovano al governo, la scelta sarà meno scontata ma sarà ugualmente dirompente. Fino a dove si spingerà per esempio Viktor Orbán nella sua politica di disimpegno dall’Ucraina? E la Slovacchia di Robert Fico? E l’Olanda dominata da Geert Wilders? E l’Italia di Giorgia Meloni e Matteo Salvini? In quest’ultimo caso, se Salvini dovesse indossare nuovamente i cappellini pro Trump, Meloni continuerà a essere fedele alla linea atlantista del rivale di Trump, Joe Biden oppure, per non lasciare spazio al suo rivale al governo Salvini, promuoverà una linea simile a quella suggerita qualche giorno fa sul Foglio dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha proposto come ricorderete un negoziato immediato in Ucraina, intravedendo dunque una impossibilità da parte dell’esercito di Kyiv di ottenere risultati militari? Il bivio è ovvio: sostenere l’Ucraina, non arretrando di un millimetro rispetto alla posizione di oggi, riconoscendo che il modo migliore per difendere una democrazia assediata è quella di armarla per poterle dare la possibilità di difendersi, o assecondare la tesi di Trump, in base alla quale la difesa dell’Ucraina merita di essere declinata al passato? 

 

Ursula for life

La curva politicamente più rilevante per il governo Meloni sarà il passaggio delle elezioni europee. Il centrodestra di governo continuerà a vendere la solita illusione: vedrete, in Europa, dopo il 9 giugno, replicheremo la stessa alleanza che state vedendo in Italia. Possibilità che questo accada? Praticamente nessuna (non ci sono i numeri, gli alleati di Meloni in Europa non vanno bene, la grande coalizione appare essere l’unica soluzione). E anche i sassi sanno che Giorgia Meloni da mesi sta studiando un piano b rispetto a quello scenario: offrire i propri voti a Ursula von der Leyen per appoggiare un bis dell’attuale presidente della Commissione europea. Ursula lo vuole: sa che per bissare ha bisogno di uno schema simile a quello di cinque anni fa, quando trovò a suo sostegno i voti non solo del Ppe, del Pse, dei liberali, ma anche del Pis (che fa parte di Ecr, il gruppo guidato da Meloni in Europa) e anche del M5s (all’epoca Conte votò Ursula, insieme con il Pd, e fu in quel momento che il governo gialloverde, formato da Lega e M5s, iniziò definitivamente a sgretolarsi). Oggi al posto del Pis e del M5s ci sarebbero i parlamentari guidati da Meloni e i Verdi tedeschi. Perché lo farebbe Meloni? Per contare in Europa (impensabile che un paese come l’Italia possa votare contro il presidente della Commissione europea in presenza di una grande coalizione). Perché sarebbe importante per l’Italia? Perché incardinare il percorso del nostro paese all’interno di una traiettoria europeista potrebbe essere un’assicurazione sulla nostra credibilità, in vista di possibili sbandate trumpiane. Perché può essere un problema per Meloni? Perché uno spostamento verso il centro di Fratelli d’Italia, verso il Pse e dunque verso il Pd, offrirebbe alla Lega su un piatto d’argento la possibilità di mostrare l’incoerenza dei propri alleati, mostrandosi in prospettiva futura come “l’unica destra italiana” (la Lega fino al 2022 era alleata del Pd, nel governo Draghi, ma questa è un’altra storia). Problemi possibili per Meloni: non dovesse essere Ursula a farcela per il bis, reggerebbe il patto che ha stipulato con l’attuale presidente della Commissione? Nel caso in cui Fratelli d’Italia dovesse andare molto bene alle europee e Forza Italia e Lega molto male, che impatto potrebbe avere questo sugli equilibri della maggioranza? E dovesse andare la Lega meno bene del previsto, peggio delle ultime politiche, sarebbe la Lega a cercare la forza per archiviare il salvinismo o sarebbe Salvini a cercare un modo per archiviare le sue svolte moderate? Big bang all’orizzonte. 

 

L’asticella di Elly

Tra le leadership da osservare con maggiore curiosità in mezzo alle curve dell’anno che verrà vi è certamente la leader più amata da Giorgia Meloni, la cui presenza sulla scena politica ha finora aiutato la premier a muoversi con la stessa agilità di chi scende in campo senza avere avversari. La domanda che tutti si pongono fuori e dentro il Pd, nel mondo della politica, è: qual è l’asticella sotto la quale la leadership di Schlein non esiterebbe più? Gli avversari di Schlein hanno fissato un punto di non ritorno: andare sotto il 20 per cento alle europee e non conquistare neppure una delle cinque regioni dove si voterà il prossimo anno (Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte, Umbria). Qualsiasi risultato superiore a questa asticella consentirà a Schlein di sopravvivere politicamente. Viceversa la sua leadership diventerà come uno yogurt con la scadenza in fronte. E in caso di flop di Schlein, le formule alternative e transitorie sono molte. Modello Bonaccini. Modello Nardella. Modello Guerini. E soprattutto: modello Vincenzo De Luca. Tic tac.

 

Campo largo, non santo

È dura oggi immaginare che vi possa essere un’alternativa al governo, all’interno di un’opposizione litigiosa che si preoccupa più di competere con i propri possibili alleati che con i propri attuali avversari. Ma qualcosa potrebbe scattare all’indomani delle europee a prescindere dall’affermazione del partito di Meloni e quel qualcosa dipende da un numero: cinquanta più uno. Tradotto significa una cosa semplice: se la somma dei partiti dell’opposizione dovesse essere superiore alla somma dei partiti che compongono la maggioranza, per i partiti d’opposizione ci sarebbe una ragione in più per smussare gli angoli e pensarsi come una possibile coalizione (pensati alternativa, avrebbe detto un tempo Chiara Ferragni). Cinquanta più uno. Ma non basta. Per unire gli estremi della coalizione, dal M5s ai frammenti del fu Terzo polo, occorre un Pd forte. Avere un Pd forte significa avere un M5s molto lontano dal Pd. Avere un Pd che doppia più o meno il M5s è l’unico modo che potrebbe avere il Pd per dimostrare di non essere quello che oggi è: un partito a rimorchio del grillismo, che insegue disperatamente Conte per paura di essere scavalcato dal M5s. Molta algebra, poca sostanza. 

 

Elefanti e cristalli

Abbiamo osservato finora il governo Meloni muoversi come un elefante in un negozio di cristalli: piccoli passi, grande cautela, movimenti bruschi solo in presenza di un contesto non pericoloso. Se i cristalli sono vicini, cosa che è capitata spesso quest’anno, il governo Meloni cerca di restare immobile, di mimetizzarsi con il contesto, modello camaleonte. Se i cristalli sono lontani, o almeno così appaiono, l’elefante torna a muoversi, sperando di non fare danni. Problema: quand’è che l’elefante può trovarsi in difficoltà e inciampare in mezzo ai cristalli? Al netto degli assalti giudiziari (la novità, rispetto al passato, rispetto alla storia dei governi forti, sarebbe non averne uno, sarebbe non avere un’indagine a carico di un volto vicino al capo del governo di turno) e al netto delle mattane salviniane (finora il centrodestra è riuscito a trasformare i suoi dissidi interni in punti di forza, in occasioni utili per annientare le opposizioni, facendo tutto in casa) le difficoltà per il governo Meloni possono arrivare da un unico fronte: l’economia. In presenza di una crescita positiva, i mercati continueranno a osservare il governo con fiducia, ritenendo credibile la prospettiva che il debito possa essere governato con piccoli rialzi di pil. In presenza di una qualche difficoltà economica, il governo entrerebbe in sofferenza e se questo dovesse accadere sarà interessante capire quante sono le frecce complottiste presenti nell’arco della premier: when in trouble, go to assedio dei poteri forti? Fino a oggi è stato così: ogni volta che Meloni si è sentita in dovere di mostrare i muscoli, ha scelto di usare la chiave del complottismo anti bancario (il rallentamento economico è colpa delle Bce, il Mes serve solo ad aiutare le banche, gli extra profitti servono per punire chi si arricchisce alle spalle nostre). Il trend economico del 2024 promette di essere positivo (grazie al Pnrr, grazie al traino dell’economia americana, grazie ai tassi di interesse al ribasso, e non parliamo poi di cosa potrebbe accadere se dovessero concludersi in qualche forma i conflitti in medio oriente e in Ucraina). Ma il fatto resta: se l’economia dovesse entrare in sofferenza, per Meloni sarebbero guai. E in presenza di un guaio, la retorica complottista potrebbe contribuire a rendere insostenibile per l’elefante passeggiare nella stanza dei cristalli senza fare danni. Al netto del tintinnar delle manette, i guai del governo passano sempre da lì: the economy, stupid. E al netto dei problemi esogeni, nel 2024 il vero nemico di Meloni resta sempre lo stesso e resta sempre legato a un tema che più passerà il tempo più sarà cruciale: la capacità del presidente del Consiglio di non mettersi nei guai da sola in un contesto in cui gli alleati sono troppo deboli per dettare la linea, l’opposizione è troppo divisa per preoccupare il governo e la fiducia nell’Italia è alta nonostante i tentativi ripetuti del governo di usare la credibilità acquisita più per compensare le proprie scelte demagogiche che per costruire il futuro del paese. Arriva il nuovo anno, arrivano nuove sfide, arrivano nuovi equilibri, arrivano nuovi ostacoli ma nonostante tutto il futuro dell’Italia offre ragioni per essere ottimisti. Almeno fino a quando Meloni alle sirene di Trump preferirà quelle di Ursula.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.