L'editoriale del direttore

Aggiungere un doppio turno alla riforma costituzionale per avere una legge impossibile da non votare

Claudio Cerasa

Trasformisti con elezione diretta: come il sistema per l'elezione dei sindaci potrebbe risolvere il pasticcio creato dalla riforma presentata dal governo

I sostenitori della riforma costituzionale presentata da Giorgia Meloni e i detrattori della stessa riforma costituzionale hanno raccontato negli ultimi giorni ai propri elettori due interessanti falsità simmetriche. La prima falsità è quella che riguarda la prelibatezza succulenta di questa riforma. La seconda è quella che riguarda la pericolosità assoluta di questa riforma. La prima falsità è nelle premesse di quello che potremmo chiamare con serenità lo “Zoppellum”. Meloni ha presentato una riforma in cui si evoca il rafforzamento del premier attraverso la sua elezione diretta, senza concedere però al premier stesso alcun potere in più rispetto a quelli che ha oggi e bilanciando l’investitura popolare del premier con una speranza offerta ai partiti minori: poter prendere il posto del premier eletto durante la legislatura attraverso una staffetta con un altro premier. Quest’ultimo, potendo sciogliere le Camere, avrebbe tra l’altro più poteri del primo Zoppellum, e con una staffetta ripetibile una sola volta e riservata soltanto agli eletti in Parlamento. Più che urlare al golpe, alla riforma fascista, l’opposizione dovrebbe urlare al pasticcio, alla riforma imperfetta, e dovrebbe forse ricordare che le radici del premierato affondano non nel fascio littorio ma nella poco littoria bozza di premierato presentata nel 1997 dall’ex diessino Cesare Salvi, nel perimetro della commissione Bicamerale guidata dal poco littorio Massimo D’Alema.

La seconda falsità della riforma arriva dalla maggioranza e coincide con una premessa ancora più farlocca rispetto a quella utilizzata per presentare la riforma. La falsità è nella demonizzazione del sistema istituzionale che attualmente governa l’Italia. La storia e la lagna le conosciamo: l’Italia ha avuto 68 governi in 77 anni e l’eccessiva instabilità degli esecutivi produce frammentazione, genera incertezza, alimenta sfiducia. Il manuale del perfetto piagnina istituzional-nazionale prevede di recitare d’un fiato il copione che vi abbiamo appena offerto. Ma la verità, che in pochi vogliono riconoscere, è diversa ed è sotto gli occhi di tutti. In Italia, già oggi, i leader dei partiti che prendono molti voti e che hanno una maggioranza solida governano fino a che ne hanno la forza. Quando i partiti non hanno maggioranze chiare il Parlamento, guidato dalla mano saggia del capo dello stato, trova modi creativi per formare un governo. E grazie al favoloso trasformismo del Parlamento, l’Italia è riuscita a smussare gli angoli degli estremismi, a produrre riforme epocali, a tenere a bada i conti e a sdoganare una cultura del compromesso che più che produrre inaccettabili inciuci (gombloddo!) ha contribuito a creare nel paese una diffusa pace sociale (oltre che una discreta classe dirigente).

Demonizzare l’attuale sistema istituzionale è ridicolo, oltre che fuori dalla realtà, e produce lo stesso effetto straniante di chi urla ai quattro venti che la riforma Meloni è la spia evidente di un paese deciso ad assecondare una svolta autoritaria. L’attuale sistema funziona, la nuova riforma no. Ma per farla funzionare e creare un sistema più efficiente rispetto a quello attuale una soluzione ci sarebbe e metterebbe tutti d’accordo: il modello dei sindaci, oh yes. Nel 1993, quando si introdusse l’elezione diretta dei sindaci, vennero fatte due scelte a bilanciamento della novità: elezione del sindaco con una maggioranza assoluta garantita a fronte di una maggioranza assoluta di voti validi al primo turno, o al ballottaggio, e introduzione di un limite di tempo massimo per il sindaco eletto, pari a due mandati consecutivi. Introdurre il ballottaggio per correggere l’attuale riforma costituzionale, eliminando le ridicoli leggi anti ribaltone, potrebbe essere un modo per dare un futuro a una riforma zoppa, non svilire il ruolo del Parlamento, salvaguardare un minimo di trasformismo e giustificare un parziale trasferimento di potere dal Quirinale a Palazzo Chigi. Riforma costituzionale, doppio turno e fiducia al premier da ottenere con le Camere riunite. Fosse così, chi potrebbe dire di no?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.