L'intervista

"Premierato? Sì alla riforma, no ai pasticci all'italiana". Parla il costituzionalista Clementi

Giulia Casula

"Una riforma debole che irrigidisce tutti e tre i lati della nostra forma di governo: presidente del Consiglio, maggioranza parlamentare e capo dello stato”, dice il professore di diritto pubblico alla Sapienza di Roma

“La mia impressione è quella di una riforma debole che irrigidisce tutti e tre i lati della nostra forma di governo: presidente del Consiglio, maggioranza parlamentare e capo dello stato”. Così il professore di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma Francesco Clementi commenta la proposta di premierato che ha trovato l’accordo della maggioranza in vista del Consiglio dei ministri di venerdì. “Uno stallo alla messicana” lo definisce, in attesa di leggere il testo definitivo, e spiega come “il primo ministro sarebbe ostaggio della sua maggioranza parlamentare: se questa si modifica, il presidente del Consiglio cade. Anche la maggioranza sarebbe sotto scacco del suo premier: se questi decide di portare il paese al voto anticipato, non c’è maggioranza che tenga”. Un sistema solo apparentemente efficace “che confonde stabilità con rigidità e elimina quella flessibilità che finora ci ha salvato” aggiunge Clementi. Il quale si dice convinto della necessità di intervenire sulla forma di governo del nostro paese per rafforzare le istituzioni ma avverte Giorgia Meloni del rischio, in caso di crisi di governo, che la sua stessa maggioranza la minacci tuonando: “Caro presidente, se lei non fa come facciamo noi, la mandiamo via”. 

In questo gioco, il presidente della Repubblica che ruolo avrebbe? “Sarebbe meno di un notaio” chiosa Clementi che sulle bozze del ddl finora circolate, nonostante le precisazioni della ministra Casellati – “nessuno vuole toccare le prerogative del Capo dello stato” – dice: “Al Quirinale viene sottratto il potere di scioglimento delle Camere e quello di intervenire nelle fasi di crisi com’è avvenuto in passato nei momenti più difficili della recente storia repubblicana”. Si riferisce alla soluzione dei governi tecnici, non a caso chiamati anche “governi del presidente”, ovvero quell’anomalia tutta italiana che negli ultimi trent’anni (prima Ciampi, poi con Dini, Monti e infine Draghi) ha visto esecutivi guidati da primi ministri che non si sono mai presentati alle elezioni. 

Anche il compromesso trovato dalle forze di maggioranza, rispetto al leitmotiv della premier “se il governo cade si va al voto” non convince Clementi. Al posto della norma anti-ribaltone – che vuole impedire cambi di casacca, individuando un sostituto premier all’interno della stessa maggioranza qualora il governo cada – propone il modello alla tedesca. “Per rendere i cittadini arbitri della decisione politica”, dice, “gli elettori avrebbero bisogno di indicare con il loro voto sia la composizione di una maggioranza di governo, cioè una leadership, sia dentro quella maggioranza, di una premiership; cioè di votare con un solo voto il leader di uno schieramento che potenzialmente il giorno dopo potrebbe essere un premier”. Aggiunge Clementi: “affinché il presidente del Consiglio non sia un’istituzione incompiuta  – come la definisce il costituzionalista nel suo libro "Il Presidente del Consiglio dei ministri. Mediatore o decisore?" edito dal Mulino – bisognerebbe dargli la nomina e la revoca dei ministri e introdurre la sfiducia costruttiva, come in Germania, utile a stabilizzare in caso di crisi e a garantire la governabilità”. Insomma, non c’è nessun modello all’italiana per Clementi, che si pone contrario a tutte quelle norme che fanno sembrare la riforma un unicum, un sistema che nessuno ha, ma con le quali “in genere – dice – si va verso il pasticcio”.

Sull’abrogazione dei senatori a vita, spesso accusati di assenteismo e di disattendere la volontà dei costituenti che in quest’istituto avevano intravisto un ruolo attivo e di stimolo al miglioramento del paese, non di certo una medaglia da aggiungere alle altre onorificenze, Clementi mostra qualche perplessità: “Possiamo anche farci una battaglia ma rispetto al monocameralismo di fatto, all’abuso della decretazione d’urgenza e ai ridotti spazi di dialogo ed emendamento in Parlamento, prendersela a testa bassa con i senatori a vita non mi sembra una priorità”. Priorità che secondo il professore si sostanzierebbe nel risolvere “l’ipocrisia costituzionale” – così la definisce – “di una forma di governo che ora come ora tradisce la carta del ‘48”. Alla domanda se Giorgia Meloni potrebbe riuscire laddove in passato altri (Berlusconi e Renzi) sono caduti, risponde “È una domanda da cento pistole. Non so se gli italiani potrebbero essere favorevoli a un’elezione diretta, credo che siano attenti a prevedere come gira l’acqua nei tubi. Il rischio è quello di una campagna elettorale trumpiana che spaccherebbe a metà un paese già abituato a fare la guerra fra guelfi e ghibellini”.