Giorno del giudizio

Il rischio referendum. Ma chi glielo fa fare, a Meloni? Parla Luca Ricolfi

Marianna Rizzini

"Se non vuole fare la fine di Renzi, la premier dovrà stare molto attenta a circoscriverne il significato della consultazione, e soprattutto ad allargare il consenso", dice il politologo

Non farò la fine di Matteo Renzi, fa capire Giorgia Meloni nel giorno in cui presenta il disegno di legge costituzionale che punta all’elezione diretta del premier. “C’è chi si è dimesso dopo aver detto ‘se perdo il referendum mi dimetto’ ”, dice la premier in conferenza stampa, accanto alla ministra titolare Maria Elisabetta Alberti Casellati. Lei no: “Io faccio la riforma”, la consegno agli italiani e sono gli italiani che decidono, e questo nulla ha a che fare con l’andamento del governo, perché io sto realizzando il programma di governo per il quale sono stata votata”. Un’impresa, quella del referendum costituzionale, non riuscita a molti. Nel caso di Meloni, anche se non è Renzi e anche se non si dimetterà, l’impresa può diventare giudizio severo e inesorabile su di lei? Lo chiediamo al sociologo e politologo Luca Ricolfi: “Certo che può diventarlo, tutto dipende dai tempi”, dice Ricolfi: “Se Meloni avesse indetto il referendum un anno fa, quasi sicuramente lo avrebbe vinto, perché la consultazione si sarebbe svolta in piena ‘luna di miele’. Ma dato che, verosimilmente, la situazione si trascinerà a lungo, con spinte e controspinte degli alleati (e degli ‘alleabili’ Renzi e Calenda), il referendum – se si farà – si farà a legislatura avanzata, con l’inevitabile conseguenza di trasformarsi in un bilancio sull’azione di governo. Bilancio che, per innumerevoli ovvie ragioni (a partire dal macigno del debito pubblico), non potrà essere entusiasmante”. Con quali conseguenze?

“Un referendum sulla riforma presidenzialista è un rischio, e Giorgia Meloni – se non vuole fare la fine di Renzi –  dovrà stare molto attenta a circoscriverne il significato, e soprattutto ad allargare il consenso, mostrando all’opposizione che la governabilità può essere un valore bipartisan, di cui potrebbe giovarsi la sinistra stessa in caso di vittoria alle politiche del 2027. E quando dico opposizione, intendo soprattutto l’opposizione riformista, non ostile al presidenzialismo: non solo Renzi e Calenda, ma anche i radicali di +Europa (il presidenzialismo era una delle grandi battaglie di Pannella) e l’ala riformista del Pd, guidata da Bonaccini”. Vasto programma. Chi glielo fa fare, verrebbe da dire? “Credo che la risposta sia: Meloni stessa. Perché se non avesse né la forza di cambiare la Costituzione in Parlamento né il coraggio di uscire in mare aperto sottoponendo la riforma al giudizio popolare, la sua figura di premier forte e risoluta ne uscirebbe gravemente compromessa”.

Meloni è una premier ipercinetica (come Renzi). Qualità o maledizione? “A me pare una ipercinesi diversa da quella renziana”, dice Ricolfi, “perché è indotta innanzitutto dalla politica estera, su cui Renzi era invece alquanto latitante o inadeguato. Io vedo semmai un deficit di ipercinesi in politica interna, dove Meloni o è assente (perché in più serie faccende affaccendata) o deve destreggiarsi nel campo minato che quotidianamente le allestiscono gli alleati. La mia sensazione è che l’opinione pubblica stia entrando in una fase di disorientamento, perché la premier non riesce a comunicare in modo chiaro quale sia la direzione di marcia della politica economico-sociale del suo governo”. “E la posso pure capire”, dice il sociologo: “Perché, se potesse essere sincera fino in fondo, dovrebbe confessare che, a parte alcune marginali concessioni a Salvini in materia di tasse e di evasione fiscale, sta facendo una tipica politica da sinistra riformista: controllo del debito pubblico, contenimento della spesa pensionistica, aiuto ai ceti deboli, misure pro-occupazione, richiesta di modesti sacrifici ai ceti medi (mancato adeguamento delle pensioni all’inflazione) e alle imprese (tassa sugli extra-profitti). Insomma, a me pare che il problema di Giorgia Meloni sia che, per infinite ragioni, non può presentarsi all’elettorato e dire la verità: l’economia cresce meno del previsto, stiamo facendo il massimo consentito dalla congiuntura economica e militare, per realizzare il programma occorre che l’Europa ci dia una mano sui migranti e non ci azzoppi con la transizione green. In breve, dovrebbe dire: mi spiace, ma ho bisogno di due legislature”

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.