Natalità

Modernità e leggi. Che cosa c'è da salvare nella politica natalista del governo

Roberto Volpi

L’Italia è un paese di figli unici, il valore di fecondità è sceso a 1,25 figli per donna. Come mettere un freno al trend negativo

Nel 2010 il tasso di fecondità in Italia era di 1,44 figli in media per donna; oggi quel valore è sceso a 1,25 – che nelle donne di cittadinanza italiana scende ancora ad appena 1,18 figli. È l’effetto di due componenti: l’innalzamento dell’età media della donna al parto e la forte proporzione di figli unici nella popolazione italiana. Insomma: i figli si fanno sempre più tardi e sempre più spesso ci si ferma – lo fa quasi una donna su due di quante fanno figli – a un solo figlio. L’Italia è un paese di figli unici in una proporzione abnorme. Ora, di figlio unico in figlio unico la società sprofonda e il suo futuro va a farsi benedire. Ed ecco allora il punto centrale, non solo per l’Italia, di una politica che intenda mettere un freno, e meglio ancora a imprimere una svolta, alle stente demografie occidentali d’oggi: riuscire a ridurre la proporzione dei figli unici e ad incrementare il più possibile, parallelamente, la proporzione dei secondi figli. Bene, di buono nelle misure per la natalità previste nella manovra di bilancio del governo c’è innanzi tutto questa consapevolezza: puntare non già genericamente sulla natalità bensì espressamente sulle nascite del secondo ordine, ovvero sul secondo figlio.

 

Questa consapevolezza, che caratterizza le singole misure, è la nota più positiva. Personalmente avrei gradito una misura più netta, forte, decisa, credo che un assegno di 500 euro per il secondo figlio fino alla maggiore età sarebbe stato più incisivo. Certo, il rischio che questo assegno funzionasse da deterrente per l’entrata delle donne nel mondo del lavoro è reale, ma al punto in cui è andata a cacciarsi la demografia italiana si poteva correre quel rischio. Detto questo, l’ampliamento del regime dei congedi parentali (diventato ormai se non il più avanzato certo uno dei più avanzati d’Europa), la gratuita dell’asilo nido per i secondi figli e l’annullamento dell’obbligo di contribuzione a carico delle lavoratrici con almeno due figli fino ai 10 anni del secondo figlio (e fino ai 18 anni per il terzo), sono tutte e tre buone misure che possono cominciare a correggere e indebolire la concezione del figlio – e particolarmente del figlio successivo al primo – esclusivamente come peso economico-materiale, oltre che freno della vita relazionale-professionale, di donne e coppie.

 

Un primo passo in questo senso già era stato mosso con l’assegno unico per i figli entrato in vigore il 1° marzo dello scorso anno, col governo Draghi. Questo è il secondo passo e si comincia a vedere una direzione precisa, una politica. Il nostro paese non ha mai avuto una politica natalista degna di questo nome, rischia di averne una quando le politiche nataliste in senso classico mostrano di funzionare assai meno di qualche decennio fa. Ma quella che si profila non è strettamente una politica natalista in senso classico: l’accento così marcato sul secondo figlio è caratteristico infatti di una attenzione non generica bensì mirata alla moderna natalità. Ch’è esattamente la svolta culturale che necessita, in modo particolare in paesi come il nostro dove, per un insieme di motivi che non possono essere esaminati in questa sede, il figlio unico è venuto ad assurgere al ruolo di punto di equilibrio per quelle coppie che intendono metter su famiglia sacrificando il meno possibile dello stile di vita assestato nel ménage a due. Ma il problema è che nelle sue previsioni delle famiglie da qui a venti anni proprio questo scopre l’Istat: che se non si interviene con tutta l’energia possibile l’unica componente delle famiglie destinata a precipitare ancora, e sono decenni che lo fa, è proprio quella rappresentata dalle coppie con figli. Il cui precipitare corrisponde, c’è poco da nascondersi, al venir meno della speranza.