Giorgetti e Meloni (LaPresse) 

L'età del tecnopopulismo

I due volti del governo Meloni, populista nelle cose minori e pragmatico su quelle essenziali

Claudio Cerasa

In pochi giorni l'esecutivo ha mostrato il peggio e il meglio di sé. I tic sovranisti contro banche e mercato e la concretezza sulle grandi partite strategiche, come Tim. Un equilibrio da non buttare

È estate, la politica va a rilento, l’esecutivo si muove con un certo affanno, l’opposizione si agita spesso sul nulla, gli elettori sono giustamente distratti ma nonostante questo, nonostante il caos, la flemma, le polemiche ovattate, gli ultimi giorni hanno offerto agli osservatori spunti preziosi per provare a mettere a fuoco le caratteristiche di una creatura interessante che sta maturando all’interno dei palazzi del potere: il tecnopopulismo. Una creatura che in alcuni casi, come abbiamo visto, si presenta con un profilo mostruoso. Che in altri casi si presenta con un profilo contraddittorio. Che in altri casi ancora si presenta con un profilo incoraggiante. E che nel giro di pochi giorni è riuscita a mettere in luce contemporaneamente il meglio e il peggio di sé.

 

Il peggio coincide con l’evocazione becera del sovranismo. Il meglio coincide con la saggia declinazione del pragmatismo. Il primo caso, ovviamente, è quello del pacchetto varato lunedì scorso dal governo. Con la tassa sugli extraprofitti delle banche, l’estensione del golden power, il blocco degli algoritmi dei voli, l’aumento delle pene edittali, la cassa integrazione straordinaria prorogata per gli ex dipendenti di Alitalia. Al di là del merito dei provvedimenti, molti dei quali il governo ha già scelto di diluire, l’insieme delle norme approvate lunedì ha un valore simbolico cruciale, in quanto rappresenta il primo tentativo concreto di declinare il populismo nazionalista da posizioni di governo. E se ci si pensa bene, in quel pacchetto, si trovano tutti i tic no global della tradizionale piattaforma del sovranismo di destra. Diffidenza verso la globalizzazione, odio contro il profitto, livore verso le banche, ostilità nei confronti delle multinazionali, avversione nei confronti dei mercati.

 

Il secondo caso, invece, è quello che si è manifestato nella serata di giovedì, quando il ministero dell’Economia ha fatto sapere di aver dato il via libera alla cessione della rete unica di Tim al fondo di investimento americano Kkr. Nel giro di tre giorni, dunque, il governo è passato dalla linea della lotta dura e pura contro i mercati, contro il profitto e contro la globalizzazione alla scelta anti sovranista di allontanare, in nome della logica del profitto, la rete unica dall’Italia, accettando di metterla nelle mani di un fondo di investimento americano, a fronte di una presenza pari al 20 per cento dello stato nella società che nascerà per governare la rete unica del futuro.

 

Le due partite sono in contraddizione totale, esprimono in modo schizofrenico due visioni del mondo totalmente contrapposte, ma rappresentano anche in modo cristallino i due volti del governo Meloni. Il primo volto è quello dello stato di necessità, per così dire, ovverosia della consapevolezza di non poter fare altro, sulle grandi partite, che essere in contraddizione con le proprie idee del passato (per farvi capire: un anno fa, su questo giornale, l’illuminato responsabile dell’Innovazione di Fratelli d’Italia, Alessio Butti, propose di nazionalizzare Tim per salvare la rete unica dalle mani degli stranieri). Il secondo volto, invece, è quello dello stato di coerenza, se così vogliamo dire, ovverosia della consapevolezza che il modo migliore per provare a nascondere le svolte sui grandi temi è quello di alzare una cortina fumogena su partite più piccole, fingendo che le grandi partite siano secondarie e che le partite più piccole siano invece prioritarie. Il tecnopopulismo di solito funziona così: pragmatici fuori e radicali dentro. Nicolas Baverez, stimato opinionista del Figaro, alcuni mesi fa diede una definizione azzeccata del tecnopopulismo. L’Italia, scrisse sul Figaro, è governata da un tecnopopulismo composto da due fattori predominanti.

 
“Da un lato, vi è una strategia economico-finanziaria molto prudente, che rispetta pienamente i parametri europei, e che ha permesso in questi mesi all’Italia, anche grazie alle posizioni espresse in politica estera, di essere ancora uno dei pilastri delle democrazie occidentali. Dall’altro lato vi è invece una strategia di politica interna più ideologica, più demagogica, che facendo leva su alcune storiche battaglie della destra nazionalista, dalle pensioni all’immigrazione passando per gli occhiolini strizzati ai piccoli evasori, ha permesso alla destra di poter nascondere dietro lo sventolio di alcune bandierine le proprie svolte mainstream”.

 

Se letto in modo superficiale, lo spartito che abbiamo osservato in questi giorni può spaventare, inquietare, terrorizzare e persino spingerci a evocare parallelismi con la stagione nefasta del 2018, quando l’Italia si ritrovò di fronte a un governo scellerato che con forza mise in campo tutte le sue energie, whatever it takes, per mostrare la propria diffidenza verso la globalizzazione, il proprio odio contro il profitto, il proprio livore verso banche, la propria ostilità nei confronti delle multinazionali, la propria avversione nei confronti dei mercati.

 

In verità, se ci si riflette un istante, la stagione di oggi è completamente diversa. Rispetto al 2018, l’Italia, anche grazie al Pnrr, grazie alla sua politica estera, grazie al suo posizionamento in Europa, si trova su un binario solido, dove il treno può rallentare, sì, ma difficilmente potrà  deragliare. E a differenza del 2018, il vulcano populista è stato costretto, in questi casi, a comprimere il magma al suo interno, a tappare i crateri più grandi e a far sfociare il magma incandescente dai crateri più piccoli. E’ stato tappato il cratere dell’anti europeismo. E’ stato tappato il cratere della xenofobia. E’ stato tappato il cratere dell’anti atlantismo. E’ stato tappato il cratere dell’irresponsabilità sui bilanci pubblici. Ma il magma populista resta lì, cova all’interno del vulcano, e da qualche parte ogni tanto dovrà uscire.

 

E tutto sommato avere un governo che a parole declina il sovranismo economico e che nei fatti accetta la cessione della rete di Tim a un fondo americano, accetta la cessione della vecchia Alitalia a un’azienda tedesca, accetta di rafforzare gli accordi di libero scambio con i paesi occidentali non è il massimo della vita ma è quanto di meglio ci si potesse aspettare dovendo fare i conti con un governo nato per offrire all’Italia un po’ più di nazionalismo, un po’ più di statalismo, un po’ più di populismo e un po’ più di impulsi anti mercato. Il tecnopopulismo si muove come un elefante in un negozio di cristalli. Ma fino a che l’elefante continuerà a fare danni rompendo oggetti piccoli e salvando quelli più grandi si potrà tirare un sospiro di sollievo. Il binario è saldo e il 2018 è per fortuna ancora molto lontano.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.