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L'analisi

Perché non ho mai creduto alla rivoluzione liberale di Berlusconi

Oscar Giannino

Il falso mito berlusconiano di più mercato e meno tasse smentito dalla realtà: il Cav. inseguiva il sogno degli anni Ottanta

Non ho intenzione di aggiungermi ai millemila che ripeteranno ora su Silvio Berlusconi ciò che hanno già stradetto per 30 anni. Su e contro Berlusconi ha preso corpo un’immensa profluvie di giudizi divisivi che per entità e continuità non ha eguali rispetto a nessun altro personaggio pubblico italiano del secondo Dopoguerra. Già questo solo fatto conferma quanto profondo sia stato il suo impatto nella vita italiana. E così sarà ancora, per lunghissimo tempo dopo la sua scomparsa. Voglio solo esprimere qualche considerazione che ho sempre tenuto per me, frutto di osservazioni ed esperienze compiute tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta dello scorso secolo, quando ero impegnato come collaboratore della segreteria nazionale del Pri che tentava di uscire dal pentapartito e dai governi Andreotti, e ci riuscì poi ma troppo tardi, quando ormai l’epilogo della Prima Repubblica avanzava tumultuosamente. Quelle osservazioni mi spinsero a non credere alla “rivoluzione liberale” che Berlusconi promise nel 1994, e a non restare troppo deluso negli anni successivi, quando l’evidenza fattuale del Berlusconi uomo di governo mostrò che solo di un’abile e intercambiabile formula propagandistica si era trattato.

Prima di argomentare, una premessa. L’asprezza dell’antiberlusconismo ha puntato sempre innanzitutto sui macro aspetti più evidenti del carattere personale di Silvio Berlusconi, sulla disinvoltura delle sue gaffes, sul suo modo di approcciarsi alle donne, sulla contraddittorietà spesso fantasiosa delle autodifese, sue personali e delle sue aziende, dalla e nella caterva di indagini giudiziarie e processi che l’hanno investito. Penso anch’io che chi rivesta ruoli pubblici debba inevitabilmente mettere in conto ingenti prezzi da pagare su tutti questi fronti. Ma il carattere di Berlusconi non mi è mai sembrato quello di un cinico dispensatore di poliedriche contraddizioni manovrate da una raffinata mente mefistofelica volta a perseguire i propri interessi, aziendali e politici. No, Berlusconi non era uscito dalle pagine della “Diaboliade” di Bulgakov, né del “Grande Inquisitore” di Dostoevskij, né del “Faust” di Marlowe e di Goethe. Non è neanche un personaggio balzacchiano. Invece mi è sempre sembrato uscire dalla penna di François Rabelais, l’esponente di punta non solo della versione eroicomica più grossolanamente popolare paragonabile a quella del nostro Teofilo Folengo, ma soprattutto dell’anticlassicismo rinascimentale francese. Di qui la volontà ferrea di opporre agli stereotipi letterari della virtù di cavalieri e signori il deliberato eccesso di frizzi e lazzi, oscenità corporee e giudizi fisici e di genere che oggi passerebbero per “politicamente scorretti”. La radice della rivoluzione nei costumi degli italiani avvenuta mentre media e politica ingessati stentavano a riconoscerla, e si compiacevano del pasolinismo anticonsumista, rivoluzione cui Berlusconi diede voce esplicita nelle sue reti tv in lotta contro il monopolio Rai, era una rivoluzione fatta anche di tette e cosce finalmente mostrate e che tanto inorridivano mia madre. E l’origine di tutto ciò non è mai stata l’intrinseca volgarità di Berlusconi che ha imperato per decenni nelle penne dei critici. Era la deliberata volontà di dare una spallata popolare alla presunta virtù usata a proprio scudo dalle impagliate classi dirigenti. Ho sempre pensato che fosse tale ostentato eccesso rabelaisiano a motivare l’amore sconfinato per Berlusconi del nostro Giuliano Ferrara, ad esempio. Questo archetipo è la ragione profonda dei consensi popolari ed elettorali di Berlusconi che lo hanno portato a battere una volta sì e una no la sinistra alle urne per tanti anni. Descriverlo correttamente viene prima di qualunque cosa pensi io degli eccessi di Berlusconi, pubblici e privati.  

Veniamo al dunque. Mi è sempre sembrato che pochi ricordino la temperie del triennio precedente la discesa sul campo politico di Berlusconi, che liquidò ogni vecchio schema della suicidaria Prima Repubblica. O meglio, l’attenzione è sempre stata riservata alla condizione finanziaria in cui versavano le attività imprenditoriali di Berlusconi, e ci arriveremo. Pochi invece ricordano ciò che l’Italia economica e finanziaria viveva. Il tracollo 1991-1993 era stato vissuto malissimo da politica e imprese italiane: quello per intenderci che ci portò dritti alla maxi svalutazione della lira nel 1992 dopo essere ottimisticamente entrati nella fascia di oscillazione ristretta dello Sme, e dopo l’adozione delle regole di Maastricht nel 1991, e che obbligò i partiti ormai sfarinati e in crisi morale per Tangentopoli a subìre la maxi manovra estiva nel 1992 del governo Amato (pari a circa 47 miliardi di euro attuali tra minori spese e più entrate) e le privatizzazioni radicalmente accelerate sotto il suo governo e proseguite sotto Ciampi nel 1993 (in un quadro però di vasta e condivisa concertazione sociale). I partiti non avevano più fiato per dirlo, ma in realtà anche vastissima parte del mondo industriale e finanziario italiano continuava a rimpiangere il mito aureo rappresentato dagli anni Ottanta. Tra il 1981 e il 1986 l’indice del reddito nazionale lordo pro capite era cresciuto di quasi 60 punti e quello di consumi di circa 50 punti. L’Italia, per quote di abitazioni di proprietà, autoveicoli, telefonia, spese per arredamento, cultura e salute, sembrava ai più diventata finalmente una nazione opulenta. Ma in realtà era un falso mito: basato tutto su effetti nominali dell’inflazione elevata, svalutazione del cambio come ragione effimera di competitività internazionale al posto della produttività, colossali spese pubbliche in disavanzo, inefficienze mostruose dei gruppi pubblici divenuti greppia per i partiti. 

Di quel mito è sempre stato figlio e rappresentante Silvio Berlusconi, non del rigore cui l’Italia era stata costretta avviando la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia grazie a Beniamino Andreatta, le privatizzazioni di banche e la cessione di quote dei gruppi pubblici in fretta e furia sottoposti alla disciplina dei mercati quotandoli. Questo falso mito spiega non solo il fatto che i governi Berlusconi nacquero con grandi promesse elettorali di perseguire la linea del meno mano pubblica inefficiente e più mercato, meno tasse attraverso il rigore di bilancio con meno spesa e più produttività, più individuo e meno stato. Promesse dovute per distanziarsi dai vecchi partiti, visto il crollo che avevano alle spalle. Ma in realtà il mito degli “anni 80” spingeva Berlusconi a fare in realtà l’esatto opposto. Tutto ciò motiva anche il duraturo consenso che Berlusconi raccolse negli anni negli ambienti della piccola e media impresa, per nulla deluse dal paternalismo con cui le si risparmiavano dosi massicce di concorrenza ed efficienza. Spiega altresì perché, nel riemergere con Salvini di nostalgie esplicite per la lira e il ritorno alla sottomissione della politica monetaria a quella del debito pubblico a go go, Berlusconi non abbia mai pronunciato scomuniche. Per onestà estrema, va detto che non solo Berlusconi e la destra cui ha dato vita Fini e Bossi fino a quella oggi vittoriosa, ma la stragrande maggioranza dei relitti dei vecchi partiti e di vasta parte dell’economia italiana restarono a lungo prigionieri del mito degli Ottanta come anni d’oro. I governi Amato e Ciampi furono vissuti come parentesi di abdicazione temporanea della politica per fronteggiare il disastro: come è sempre stato per i governi tecnici nel nostro paese, compresa l’ultima esperienza con Mario Draghi. Ma Berlusconi sapeva di essere in maggioranza, facendo l’appello all’Italia per tornare al mito degli anni d’oro, che tali erano solo per chi non sa leggere le cifre comparate delle economie con cui l’Italia si misura. Il luogo comune è diventato invece “Berlusconi divenne leader politico per salvare le sue imprese”. Che un fondamento ce l’ha, eccome. Ma mi è sempre rimasto l’interrogativo se non venisse prima invece il fattore che ho indicato in precedenza. I primi anni Novanta erano stati molto problematici per le attività del Cavaliere. Il peggio nel 1992: pubblicità delle tv a crescita zero, debiti tra finanziari e commerciali saliti a 4.500 miliardi di lire secondo Mediobanca, di fonte a un patrimonio di poco più di mille miliardi, oltre 700 miliardi l’anno di soli oneri finanziari, il tutto si reggeva in piedi solo grazie alla raccolta di liquidi da parte di Standa, che però la portavano in perdita, non pagando i fornitori e  dovendo girare cassa a sostegno della capogruppo. Quote molto rilevanti delle maggiori società del gruppo erano a garanzia ipotecaria dei prestiti bancari. Tutto ciò spinse Berlusconi riservatamente persino a tentare una via per lui indigesta. Andare da Enrico Cuccia e chiedergli aiuto. Ma Cuccia gli rispose che l’aiuto era possibile solo a condizione che Berlusconi accettasse quel che più volte gli Agnelli e i Pirelli avevano dovuto assecondare per essere salvati da Mediobanca: restare per un pezzo in minoranza nei poteri di gestione, e fare tutto ciò che Mediobanca avrebbe predisposto. Berlusconi disse no, e rischiò che le Banche di interesse nazionale ancora pubbliche gli bloccassero l’anticipo continuo delle linee di credito, chiedendogli un rientro immediato che avrebbe determinato il default del gruppo. Si sottrasse Cesare Geronzi con il Banco di Roma, che continuò a sostenere Berlusconi e ne ottenne imperitura riconoscenza. Ma Geronzi non sbagliò: alla fine Berlusconi affidò nell’autunno ’93 il suo gruppo nelle mani di Franco Tatò, e con la quotazione di Mondadori e con la trasformazione della Mediolanum in Spa per poi quotare anch’essa, le basi perché Tatò recuperasse alla capogruppo 1.600 miliardi di lire erano già poste poco prima delle elezioni del 1994. Prima, seppur di poco ma prima: non dopo.

Non è un mistero che Cuccia ricavasse da queste vicende il giudizio su Berlusconi come uomo disinvolto la cui parola non conta molto, sempre pronto a mettere a proprio vantaggio le esternalità relazionali che vengono dal cuore profondo dell’Italia meno produttiva, che si regge appoggiandosi di volta in volta a quelle forze economiche e politiche che un domani garantiranno cospicua riconoscenza. Tutto ciò spiega perché io alla rivoluzione liberale promessa da Berlusconi non abbia mai creduto. I fatti sono andati poi come sono andati. Mi sorprese quando alle elezioni del 1996 Berlusconi contraddisse se stesso, visto che non aveva mai creduto né a un ruolo guida né tanto meno a una vera utilità di intellettuali e competenti per innervare la sua forza politica di contenuti credibili e rigorosi. La leva berlusconiana nel 1996 dei vari Piero Melograni, Lucio Colletti, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera, Vittorio Mathieu, di diversa provenienza e profilo ma obiettivamente credibili, fu però solo una piroetta tra le tante che il Cavaliere lasciò tra le promesse inattuate. 

La destra italiana è fatta di leaderismi personali a imitazione di Silvio, ma il difetto si è esteso a tutti i partiti. E di bandierine contrapposte. E’ stato lui il primo a farsene esempio e campione in Europa nell’ultimo trentennio, e altrove molti sistemi politici hanno visto il fenomeno replicato. Silvio ha reso molto complicato per dei liberaldemocratici non populisti proporsi credibilmente per riforme serie e incisive, che investano in radice i mali strutturali del declino italiano. Per questo, agli occhi di un fallito come me, Berlusconi è imperdonabile. E i suoi epigoni attuali in Italia non sono dotati neanche di una frazione della sua forza comunicativa di un tempo. Però parliamoci chiaro: solo concentrando decine e decine di indagini e processi su di lui si è ottenuto l’effetto di appiccicargli la nomea di delinquente seriale. Se avessimo mai assistito a iniziative giudiziali analoghe sugli Schimberni e Gardini e Iri ed Efim e Gepi di un tempo, avremmo visto emergere orrori che invece resteranno chiusi nel dimenticatoio per sempre. In Italia persino un genio imprenditoriale come l’ipervitalista Riccardo Gualino fu spolpato di ogni sua impresa, tra le decine di successo cui aveva dato in vita negli anni Venti del secolo scorso, e non solo in Italia ma in mezza Europa e negli Usa. E a prendersele per quattro soldi furono i grandi gruppi privati oligarchici dell’epoca, benedetti dal fascismo a cui Gualino stava sulle scatole. L’Italia non è mai stata terreno facile, per i vitalisti libertini rabelaisiani.

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