(foto Ansa)

L'ombra del popolo

Il dramma degli anti-Cav. Trent'anni di opera buffa, il berlusconismo e il suo doppio

Andrea Minuz

La procura di Milano a lutto è l’immagine definitiva. Lidia Ravera che scappa a Stromboli, la “catastrofe estetica” di Cacciari. Una guerra arcitaliana degenerata nella psicosi

La procura di Milano a lutto è forse l’immagine definitiva. L’epigrafe tombale su trent’anni o quasi di quell’opera buffa e arcitaliana che, assieme al berlusconismo, fu l’antiberlusconismo. Marce dei professori, girotondi al Palazzo di giustizia, flash-mob, lancio di statuette del Duomo, satire e strali, un diluvio di appelli e controappelli, manifesti, convegni, giornate di studio, raduni al Palavobis, No-B Day, No-Cav-Day, film, inchieste, documentari, popoli viola, agende rosse. Subito tornano alla mente le immagini del 2011. Era la sera del 12 novembre. Travolto da una raffica di scandali sessuali, all’acme di quella che Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia, aveva ribattezzato “mignottocrazia”, il Cav. abdicava. Fine del quarto governo Berlusconi. “Fine di un’èra”, titolavano il Fatto e Repubblica, che gli addebitavano anche il crollo negli incassi dei cinepanettoni. In rappresentanza di quella metà del paese che non l’aveva mai sopportato, e che dell’estromissione del Cav. dalla vita pubblica aveva fatto una ragione di vita, una folla festosa si radunò in via del Plebiscito. Chi stappava lo champagne tenuto in fresco dal ’94. Chi cantava. Chi ballava. Spuntò qualche monetina, come al Raphael. Valerio Staffelli, in smoking, girava su e giù per Montecitorio provando a consegnare un tapiro con parrucca e rossetto da escort. Sotto al palazzo della Consulta, una fantomatica orchestra dedita alla “resistenza musicale permanente” suonava l’Alleluia di Händel. E in uno di quei cortocircuiti di cui solo l’estro italiano è capace, un gruppo di ragazzetti antiberluscones urlava “fro-cioooo, fro-ciooo” al Cav., mentre lui sgattaiolava dalle uscite nel retro. Non vedremo più niente di simile. Mai. “Sogno un governo noioso”, fu infatti una delle prime cose che disse Mario Monti, succedendo a Berlusconi. E così fu.

 

Il fatto è che nei prossimi anni non si potranno raccontare Berlusconi o il berlusconismo senza il loro doppio. Senza cioè la fobia, la ripugnanza, lo sdegno, il rifiuto radicale e ancestrale che animarono l’antiberlusconismo. Tra i due c’è sempre stato un rapporto simmetrico e speculare. Nascono legati a un doppio filo. Al di là dell’ammirazione iperbolica, delle pose grottesche di lacchè, cortigiani e sottoposti, Berlusconi suscitò nelle folle forme di pura adorazione che sconfinavano nel misticismo parareligioso e miracolistico. Fan che si inginocchiavano, moribondi che si rianimavano dopo una sua vittoria elettorale, paralitici che si alzavano dalla sedia a rotelle, fino ai piani alti della riflessione teologica, come nell’impareggiabile saggio di Sandro Bondi, “Il sole in tasca”, sottotitolo: “L’utopia concreta di Adriano Olivetti e Silvio Berlusconi”, che declinava il berlusconismo in un nuovo comunitarismo messianico, infilando il Cav. e Olivetti nella medesima “cornice progettuale etica e spirituale”. Le iperboli dell’antiberlusconismo non furono però da meno. A un certo punto Lidia Ravera fuggì a Stromboli. Erano gli anni in cui a ogni vittoria del Cav. qualcuno minacciava di “abbandonare l’Italia”, ma poi restavano tutti qui. “Dato che l’attuale regime ha abolito il confino politico per i suoi fieri oppositori”, diceva Ravera, “mi autoesilio a Stromboli”. L’autoesilio nella propria villa era una cosa nuova. Ennesima invenzione del berlusconismo. Pochi mesi dopo usciva “A Stromboli”, nuovo libro della scrittrice, scritto per l’appunto in esilio, anzi “in conflitto col proprio tempo”, come diceva la quarta di copertina.

 

Per chi aveva vent’anni all’epoca della discesa in campo, e dunque è cresciuto e poi è diventato adulto e infine cinquantenne con B., l’antiberlusconismo si offrì come religione indiscutibile. Qualcosa che dava identità, faceva sentire parte di un tutto. Perché essere di sinistra a ridosso del crollo del Muro era un po’ complicato. Pieno di contraddizioni e svilimenti. Ma essere antiberlusconiani era un posizionamento limpido, netto, euforico. Nella sua prima fase, quella della “discesa in campo”, l’antiberlusconismo fu soprattutto un rifiuto del mondo plasticoso delle televisioni commerciali e della pubblicità. Ma era anche un più didascalico rifiuto della realtà che ci circondava. Dopo quell’incredibile e impronosticabile vittoria del Cav. ci si interrogava: come può essere che la gente vota Berlusconi? Chi sono? Dove vivono? Capitava di trovarsi a una cena e sempre qualcuno, con sdegno e stupore, dando per scontato si fosse tutti d’accordo, diceva: “Ma come fa a vincere le elezioni? Non conosco nessuno che l’abbia votato”. Da qualche parte dovevano pur stare.

 

Erano i vecchi democristiani bigotti e anticomunisti? Erano gli esuli del Psi orfani di Craxi? I liberali? E quando mai s’erano visti i liberali da noi? C’erano sdegno e incredulità per i metodi di marketing, per i sondaggi di Gianni Pilo sui “sogni degli italiani”, per gli interventi dal palco modellati sui tempi televisivi, per quell’attenzione all’immagine, ai sorrisi, alle cravatte a pallini, per i modi affettati, il gergo aziendalese mescolato a impennate da telepredicatore americano. E sullo sfondo un partito pianificato come un prodotto industriale in funzione di un target. Cose incredibili, sbeffeggiate, demonizzate (traumi che però si ripetono sempre uguali: le prime Leopolde, Renzi in giubbetto di pelle da “Amici”, l’armocromista di Elly Schlein, e ogni volta lo scandalo del trucco, di una regia orchestrata, della consulenza d’immagine contro la mitologia dell’“autentico”, la fatidica disfatta della “verità” inghiottita dal prodotto). E quella folla alla prima convention di Forza Italia, quei tricolori che sventolavano nella grande sala azzurra del Palafiera di Roma, dentro una scenografia da “Truman Show”: erano comparse pagate da B. o c’erano andati sul serio? Specialmente sbeffeggiato era l’inno. Un inno composto prima di fare il partito: musica di Renato Serio, testo del Cav., arrangiamento di Augusto Martelli. Non un inno, ma un “jingle”, si disse subito, come le musichette degli spot o dei programmi Fininvest. “Questi jingle possiedono la seduzione infantile della pubblicità”, diceva il poeta Edoardo Sanguineti, “e con la loro persuasione occulta agiscono nell’inconscio delle anime semplici”. Anni dopo, un giornalista sadico gli farà sentire “Meno male che Silvio c’è”, nuovo inno-jingle adottato dal 2008, per poi immortalare la scena: “Sanguineti è inorridito, ripensa con sconforto ai canti partigiani e di lavoro, alle filastrocche popolari, all’Internazionale socialista capace di ‘incarnare la voce di un’Idea che ha attraversato il mondo’”. E ce l'immaginiamo la faccia di Sanguineti, autore di “Laborintus” e “I Novissimi”, costretto all’ascolto di questa melodia che Andrea Vantini, di professione cantautore, aveva buttato giù di getto dopo l’ennesimo attacco al Cav. di Travaglio e Santoro in tv (Vantini scrisse anche “Al di là del mare”, dedicata all’ultimo Craxi, ebbe però meno fortuna).

 

Al Palafiera, queste anime semplici cantavano tutti insieme col karaoke nel maxischermo, “che siamo tan-ti-ssi-mi e abbiamo-tutti-un-fuoco-dentro-al-cuoreeee”. Come un vecchio crooner, il Cav. gongolava su e giù nel palco col microfono in mano. Citava a braccio passi dalla sua prefazione a “L’elogio della follia”, uscita per le “strenne” Mondadori, ripubblicata da poco nella nuova “collana dell’Utopia”, orpello culturale della prima discesa in campo, schema a tre punte: Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, Machiavelli. All’ingresso distribuivano il “kit del candidato” (che su eBay oggi vale una fortuna): gadget, spillette, adesivi, portachiavi, nacchere per applaudire. L’attacco del discorso di B., quel giorno a Palafiera, è memorabile e arcinoto. Vale però sempre la pena citarlo, perché infondo c’era già tutto: “Venendo qui ho pensato che c’era un matto che stava andando a incontrarsi con altri matti”. Applausi. Ovazione. Tutto era così improbabile, buffo, con un ché di fiabesco e un po’ inquietante. Insomma, chi poteva credere a una roba del genere? Forse sono dei “replicanti”, si leggeva su L’Unità il giorno dopo la kermesse. Si aprivano scenari à la “Blade Runner”: una minacciosa borghesia di androidi-imprenditori e replicanti-evasori stava per invadere il paese. Era del resto il periodo cinephile del giornale, L’Unità di Veltroni, il grande cinema allegato in Vhs. Nei reportage dal pianeta Forza Italia, in quella prima campagna elettorale, sui giornali del fronte progressista, come si chiamava allora, “replicanti” era una parola che ritornava spesso. Restituiva bene il senso di una minaccia sconosciuta e inedita, per quanto nessuno sembrava prenderla sul serio. Risuona infondo ancora in “Loro”, il film in due parti di Sorrentino per provare a raccontare il crepuscolo del Cav. Us and Them. Non so quanti se lo ricordino oggi, ma il Karaoke di Fiorello fornì le prime coordinate di riferimento per una contrapposizione morale, estetica, valoriale trasferita poi nello scontro politico-ideologico, dopo la vittoria del ’94. Il karaoke, che in quegli anni furoreggiava su ItaliaUno con ascolti stellari, era la metafora di un partito effimero, “di plastica”, destinato a essere smontato e sbaraccato di lì a breve, come il palco del programma itinerante di Fiorello alla fine di ogni puntata. Si rivelò più resistente del previsto.

 

Il karaoke fu subito bollato come “roba da imbecilli”, “nutrimento per cretini”, “fesseria”. Il gancio con la politica poi era parso immediato. “Ecco Forza Italia, la politica- karaoke” titolava L’Unità. “Debutta col karaoke l’uomo dei miracoli”, scriveva Repubblica. Sociologi, intellettuali, opinionisti, cercavano le ragioni del successo di un programma costruito su una formula così semplice (l’aveva ideato Fatma Ruffini, autrice di punta delle reti del Cav., col colpo di genio di riportare in salsa itinerante, nelle tante piazze della nostra provincia, una mania giapponese che spopolava invece in ristoranti e locali, riadattandola così al paese delle sagre, delle fiere e del Cantagiro). “Vera e propria parafrasi del berlusconismo, il karaoke ha scoperto le piazze d’Italia e la ha sedotte parlando il loro linguaggio”, si leggeva su L’Unità qualche mese dopo la nascita di Forza Italia. Si snocciolavano analisi tra la folla “virtuale” e televisiva del karaoke, e quella vera, reale, “autentica” delle manifestazioni per il 25 aprile o il concertone del primo maggio. Una piazza addomesticata e ipnotizzata che esisteva solo in tv e un’altra che esisteva sul serio. Da lì in poi, la contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo fu tutta così: il paese vero contro quello finto, l’Italia autentica contro quella della televisione, quella giusta e onesta del 25 aprile e quella degli evasori. Entrambi, berlusconismo e antiberlusconismo si fronteggiarono in tv o nelle piazze, nei girotondi o in Parlamento, sempre animati da un’incontenibile vena istrionica, teatrale, spesso comica, insomma italiana, perché sapevano di essere fatti uno per l’altro.

 

Non c’è dubbio, e lo si è detto e scritto sino allo sfinimento, che da un punto di vista politico l’antiberlusconismo sia stato il grande nutrimento del Cav., parte della sua forza, un’arma segreta da sfoderare sotto le elezioni. Già allora non pochi misero in guarda dai cortocircuiti di una demonizzazione che andava assumendo le forme della psicosi. Ma troppo forte era la tentazione della barricata. Irresistibile il fascino dell’emergenza democratica permanente, il richiamo a una fantasia di Resistenza immaginaria fatta nei salotti televisivi e nei flash-mob. Per molti altri italiani troppo forte furono lo shock, lo sbigottimento, il trauma, la “catastrofe estetica” incarnata dal berlusconismo, come ebbe a dire Massimo Cacciari. L’irruzione improvvisa del postmoderno in un paese vecchio e ostile ai cambiamenti, figuriamoci ai salti in avanti improvvisi. L’antiberlusconismo fu un collante sociale, catarsi, esorcismo collettivo, manuale di conversazione e nuovo rito della borghesia, o “ceto medio riflessivo” (diceva un grande antiberlusconiano come lo storico Paul Ginsborg). Una magnifica start-up, anche. Forse l’unica che abbia mai funzionato in Italia. Veicolo di carriere, vetrina per scrittori, registi, giornalisti, opinionisti, escort, martiri, epurati, personaggi televisivi vari. Il partito di Repubblica e quello di Santoro, Fazio e Saviano, Benigni lettore della “più bella del mondo” e il Fatto vissero d’arte antiberlusconiana. Fu un itinerario esemplare di errori, miopie, incomprensioni di un fenomeno epocale che non era riducibile alla sola sfera della politica. Analizzato e contrastato con le armi sbagliate. In una vistosa sfasatura temporale tra due mondi, quello berlusconiano e quello antiberlusconiano, che non sembravano appartenere alla stessa epoca (“quello berlusconiano”, diceva Alessandro Orsina, “è un universo tolemaico che per molti anni è stato studiato da uno stupefatto osservatore copernicano”, anche se i termini sarebbero da invertire).

 

Fu un campionario di tic, frustrazioni, ritardi culturali della sinistra e del mondo intellettuale, non tutto certo, ma una gran parte sì. E chissà cosa resta oggi, trent’anni dopo. Cosa resta dell’antiberlusconismo agli occhi di una generazione che la tv lineare non sa più bene cosa sia e Berlusconi l’ha conosciuto forse solo su TikTok, quindi già icona-pop e gommosa. Un Berlusconi tumulato nell’immaginario, ormai opera d’arte, effige, simulacro, consegnato alla storia delle immagini prima che delle idee, come il Mao di Andy Warhol o il papa travolto da un meteorite di Cattelan.

Di più su questi argomenti: