Silvio Berlusconi dà dei “poveri comunisti” ai contestatori durante un comizio nel 2009 (Ansa) 

Quel che resta dell'antiberlusconismo senza limitismo. Che ha segnato un'epoca

Andrea Minuz

Un caimano lungo trent’anni. Film, libri, scioperi, insulti, marce. La distinzione tra “l’uomo” e “il politico” richiamata in tanti messaggi di auguri da avversari e nemici di un tempo, in fondo, non dice il vero

Il fan arrivato dal Salento e rimasto cinque giorni lì davanti, il pensionato in pullman da Cosenza, il dee-jay dalla Grecia che appende lo striscione “Forza Silvio da Sasà, re di Mykonos”. Mentre il Cav. fortunatamente si riprendeva e stabilizzava, fuori dal San Raffaele, sin da subito, tutto un pellegrinaggio di fedeli e fedelissimi con regali, souvenir, cibo, vivande, acqua santa, lettere autografe, foto-ricordo, ninnoli e chincagliere, come in una Medjugorje laica, festosa e arcitaliana. Una grande manifestazione d’affetto, spontanea, “dal basso”. A leggerne i resoconti puntuali su Repubblica, che ogni giorno intervista un nuovo fan lì fuori, in una copertura assai accanita del decorso ospedaliero, come a farsi perdonare vent’anni di sfrenata militanza anti Cav., si capisce anche quanto male sia invecchiato l’antiberlusconismo. Qualche lugubre tweet nei primi giorni di ricovero, magari subito ritirato come i coccodrilli nelle redazioni dei giornali, e poi una scia davvero malinconica e sfocata di ricordi. Chissà, per esempio, cosa resta dell’antiberlusconismo per la generazione di ragazzini che il Cav. l’ha conosciuto su TikTok, anzi Tic-Toc-Taaac. Quindi un Cav. già icona pop, tumulato nell’immaginario, un Berlusconi ormai opera d’arte, come il Mao di Andy Warhol, il Papa travolto da un meteorite di Cattelan, un’installazione di Damien Hirst. Di sicuro non scuoterà granché le coscienze “teen” l’idea di un consenso forgiato sulla tv lineare, come gli spiegheranno a scuola. Forse è come con Andreotti per noi, quando eravamo giovani e lui a processo. Sapevamo che era stato cattivissimo ma ci faceva tenerezza, non sembrava Belzebù casomai Yoda di “Star Wars”, e si bloccava di botto davanti a Paola Perego in tv “… Presidente??!! Presidente??!!”. 

  

Le manifestazioni d’affetto al San Raffaele, spontanee, “dal basso”. A leggerne i resoconti si capisce che l’antiberlusconismo è invecchiato male

  
L’odio cieco per la Democrazia cristiana non l’abbiamo conosciuto, ma l’antiberlusconismo è stato per la mia generazione una religione indiscutibile, un credo, un totem. Qualcosa che dava identità, faceva sentire parte di un tutto. Essere di sinistra era un po’ complicato, pieno di contraddizioni e svilimenti, ma essere antiberlusconiani era un posizionamento limpido, netto, euforico. Come era possibile non opporsi al cielo azzurro, il tricolore, lo slogan da stadio, il sorriso del Cav. sui manifesti, il karaoke, l’inno e la leggendaria “valigetta col kit del candidato”, epitome del mondo aziendale, che su eBay ora costa una fortuna? Come non indignarsi per gli appelli di Raimondo Vianello, Mike Bongiorno, Iva Zanicchi, per l’endorsement surrealista di Ambra, le giaculatorie di Emilio Fede nel Tg4 della sera? Son cose consegnate alla Storia, rese subito immortali da Scalfari che bollò l’operazione con una profezia memorabile, “è sceso in campo il ragazzo coccodè”. 

  

“L’unico paese al mondo”, il film “contro Forza Italia” diviso in nove spot. Andavi al cinema a vedere “Carlito’s Way” e te ne ritrovavi uno

  
Però in pochi si ricordano una contro-campagna elettorale messa su da un gruppo di registi italiani che era molto peggio. C’erano, tra gli altri, Nanni Moretti, Carlo Mazzacurati, Marco Risi, Francesca Archibugi, Daniele Luchetti. Era un film di venti minuti, diviso in nove spot, un film “contro Forza Italia”, destinato alla sala cinematografica. Si intitolava “L’unico paese al mondo”, evocando subito sdegno, costernazione, vergogna. Sui giornali si leggeva di fantomatiche “file all’Anteo” per vederlo, segno d’indubitabile vittoria alle elezioni. A Roma però si segnalava qualche fischio. C’erano infatti proiezioni a sorpresa. Si andava al cinema magari a vedere “Carlito’s Way” con Al Pacino per poi ritrovarsi Luchetti e Mazzacurati contro il Cav. con comprensibile disappunto dell’ignaro spettatore (“le prime proteste arrivano dopo un quarto d’ora”, scriveva il Corriere, “ci scappa uno ‘stai zitto, fascista’ e si sfiora la zuffa, poi si aspetta la fine, qualcuno applaude”). C’era Moretti in versione Botero del “Portaborse” ma truccato da vampiro che diceva “sono tornato!”, oppure, nello spot di Archibugi, si vedeva un gruppo di bambini che si mettono a giocare, poi arriva un bambino prepotente, arrogante, viziato, chiaramente una specie di mini-Cav. Il livello era questo. Oggi infatti è introvabile. L’avranno giustamente rimosso anche da YouTube. Chiesero a Berlusconi cosa ne pensasse: “Una mossa non originale, se non nella forma, in genere gli spot sono a favore di qualcosa, non ‘contro l’altro’” (sintesi fulminante del dramma di ogni coalizione di centrosinistra a venire). Ma i registi non capivano granché di pubblicità, avevano in mente la-grande-lezione-del-cinema-civile-italiano. “Abbiamo fatto questi spot”, diceva Moretti, demiurgo dell’operazione, “mossi dal senso di disgusto, di imbarazzo morale, rifiuto psicologico, estetico ed etico nei confronti di Forza Italia”. Moretti le infilava tutte. Aveva ragione lui. Era una spiegazione perfetta di quel che sarebbe stata la grande marea dell’antiberlusconismo che stava per travolgere tutto. 


“L’unico paese al mondo” non è il primo film che tira in ballo Berlusconi, ma è comunque la prima operazione d’antiberlusconismo programmatico. Il risultato del film era modesto, le elezioni andarono come andarono, e gli spot anti Cav. a vederli oggi fanno più tenerezza del karaoke o la valigetta del candidato, se non altro sintonizzata su un’altra leggendaria valigetta di quei giorni, quella di “Pulp Fiction”, arrivato al cinema poco dopo la discesa in campo. Una storia dell’antiberlusconismo come canone culturale è ancora tutta da scrivere, ma potrebbe cominciare dal flop de “L’unico paese al mondo” che però un mondo lo apre. Perché l’antiberlusconismo sarebbe stato tutto così, proprio come diceva Moretti. Non una battaglia politica, ma una infinity war morale, un’affermazione di disgusto verso quel mondo e quell’elettorato. L’antiberlusconismo fu un manuale di comportamento di quella parte del paese autoproclamatasi “giusta”. E come nei morality play del teatro preelisabettiano c’erano personaggi tipizzati, schemi netti, storie semplici, edificanti, il bene, il male, il Diavolo e la colpa, in modo che tutti potessero capire. I film antiberlusconiani furono bruttini, tremendi o non riusciti, di sicuro sempre dimenticabili. Brutto era “Il Caimano”, come sempre i film a forma di “Report”. Non funzionava neanche un po’ “Arance & Martello” di Diego Bianchi. Coi documentari anche peggio (“Draquila” di Sabina Guzzanti, “Videocracy” di Erik Gandini). 

  

“A pensarci bene”, diceva Silvio Orlando, “‘Ferie d’agosto’ è un film sull’impossibilità di andare in vacanza, per noi di sinistra”

  
Ma sarebbe complicato separare i film “su” Berlusconi da quelli in cui aleggiava l’ombra del Cav. che erano anche tantissimi. Per esempio “N”, il film su Napoleone di Virzì, venuto così-così, si poteva sempre risollevare vendendolo come “una commedia sul berlusconismo” (Napoleone era un Berlusconi finalmente esiliato). Era perfetto invece “Ferie d’agosto” nel fissare tic, comportamenti, nevrosi della nuova Italia bipolare e di quel disgusto verso quegli altri lì. “A pensarci bene”, diceva Silvio Orlando, “Ferie d’agosto è un film sull’impossibilità di andare in vacanza, soprattutto per noi di sinistra”. 


L’antiberlusconismo era una gran festa. Lo si praticava con ironia e distacco, o con la foga santoriana dell’indignazione e la denuncia, o con nevrosi, proiezioni fantasmatiche, deliri persecutori. Lidia Ravera scrisse a un certo punto sul Fatto che si era “relegata da sola a Stromboli, dato che l’attuale regime ha abolito il confino politico per i suoi fieri oppositori”. Bisognava fare tutto da soli, che diamine! Regime o non regime, l’importante era celebrare questa radicale incompatibilità morale col Cav. e a cascata con il suo elettorato, accampamento di paraculi, evasori, parcheggiatori in doppia fila (come diceva Romano Prodi), maschi allupati, femmine sempre sottomesse, tutti naturalmente ignoranti, scemi o cafoni arricchiti. L’antiberlusconismo era un patto non scritto quando si stava in società, a cena con gli amici, a una festa, non importa. Quelle cose su cui si è tutti d’accordo senza neanche bisogno che se ne parli. Fu naturalmente anche un formidabile veicolo di carriere, una vetrina scintillante, uno strumento di marketing per scrittori, artisti, giornalisti, personaggi televisivi, e chiunque fosse in cerca di visibilità (come in fondo anche l’anti-antiberlusconismo). L’unica start-up culturale che abbia davvero funzionato in Italia. L’antiberlusconismo spaccava le famiglie, come la dinastia Guzzanti, Paolo in Forza Italia, e i figli, Sabina specialmente, in barricata. 


Per chi aveva vent’anni nei roaring nineties, l’antiberlusconismo fu un collante più forte dell’antifascismo, che era vecchio e stantio, ma non si poteva dire. L’antifascismo andava bene il 25 aprile, ma per tutti gli altri giorni c’era l’antiberlusconismo. Scuole, licei, università si occupavano sempre contro il Cav., anche se al governo c’era Prodi. Ho perso il conto del diluvio di “emergenze democratiche”, attacchi alla Costituzione, minacce allo stato di diritto che ho schivato non si sa come in tutti questi anni. Insieme al mantra del conflitto-di-interessi c’era quello di Berlusconi come Mussolini, mentre oggi va di più l’accostamento con Trump (tra le prove di allora: i cinepanettoni che stavano al Cav. come i “telefoni bianchi” al fascismo). E poi Berlusconi aveva “sdoganato” i fasci, la nuova destra oligominerale di Fiuggi, Fini che pareva presentabile, un tipo così a modo. Ma qualsiasi cosa fosse, il berlusconismo era anche una cosa diversa dal fascismo. E “quest’altra cosa” sembrava più insidiosa, più seducente, così si diceva. Il nuovo fascismo passava dalla tv commerciale, dalla pubblicità, dal cerone, dal lifting, dalla calza calata sopra la telecamera prima di registrare il fatidico messaggio della “discesa in campo”. Chi poteva credere a una roba del genere? Nessuno. Solo che le elezioni, incredibilmente, dicevano il contrario. 


Era chiaro che chi votata il Cav. (per sfregio, per convincimento, perché credeva nella rivoluzione liberale, non importa) si guardava bene dal dirlo. Comunque la democrazia non funzionava più. Ingroia e Scarpinato scrivevano su Micromega che era giunta l’ora di sospendere la “democrazia formale” per salvare quella “sostanziale”, anticipando l’accorata richiesta di golpe di Asor Rosa in un leggendario editoriale del Manifesto. Poiché batterlo alle elezioni sembrava complicato, l’antiberlusconismo si era dato il compito di mostrare il “vero volto” del Cav. Ma qual era? Non era mica facile. Bisognava scegliere tra le tv che dai e dai avevano colonizzato le coscienze, oppure gli intrallazzi immobiliari per tirare su Milano2, oppure l’amicizia con Craxi che suonava come una condanna senza appello, oppure la P2, o la pista mafiosa, Dell’Utri, Mangano, Capaci, via D’Amelio e tutto il packaging che avrebbe poi composto il puzzle della “Trattativa”.  Se non si parte da Tangentopoli non si capisce nulla della cifra politica del berlusconismo, ma se non si parte da questa frattura etica-estetica-morale che si annuncia subito, prima della vittoria del ’94, non si capiscono i messaggi di giubilo per la quasi-morte del Cav. la scorsa settimana. La cosa non stupisce, c’era chi festeggiava dopo l’attentato alle Twin Towers, figuriamoci. Ma la distinzione tra “l’uomo” e “il politico” richiamata in tanti messaggi di auguri da avversari e acerrimi nemici di un tempo non coglie nel segno e, in fondo, non dice il vero. In tutti questi anni, Berlusconi non è stato un avversario politico. L’avversario politico si odia in campagna elettorale, si combatte se va al governo, poi basta. Berlusconi no. Berlusconi è stato il demonio, il male, il diverso-da-noi, la concrezione di un incubo, l’Altro e l’ultra e tutte quelle cose che spiegava Moretti. Ha rappresentato un’epoca, uno stile di vita, dei valori o dei disvalori che ci repellono, o così almeno ci è stato sempre spiegato. Gli anni Settanta erano stati magnifici, certo violenti, complicati ma veri, autentici, partecipati, poi erano arrivati i terribili anni Ottanta, poi Tangentopoli, come una punizione divina, un castigo per tutto quel godimento, l’opulenza, l’edonismo, poi mentre tutto sembrava mettersi per il meglio, con la “gioiosa macchina da guerra” pronta a entrare in scena, era arrivato Lui. Tiè! 


Il racconto non prevede molte obiezioni. Lo si trova in versioni più sofisticate, dense e naturalmente raffinate nei libri di Crainz, Ginsborg, Gibelli e altri storici che si sono formati all’ombra del marxismo, come tutti o quasi. Dalla vastissima letteratura antiberlusconiana si staccano davvero in pochi. Il filosofo Mario Perniola, che in una boutade o in un momento di massima lucidità, diceva che il vero Sessantotto l’aveva realizzato Berlusconi. Alberto Abruzzese che a caldo, nel 1994, elogiava il tempo nuovo, spiegando se non altro che Berlusconi veniva fuori più da Pippo Baudo che da Mussolini e che se la sinistra avesse visto un po’ più di tv l’avrebbe forse capito in tempo. Poi, naturalmente, Orsina, forse l’unico libro sul Cav. che vale la pena leggere, tra i pochi a prendere il berlusconismo sul serio, cioè a provare a capire le ragioni molto concrete del suo elettorato, senza ridurlo a degli allocchi travolti da “Drive-In”. 


Quando arrivarono gli scandali sessuali, le cene eleganti, le olgettine, Ruby, Noemi, cioè il nostro #MeToo in anticipo sui tempi, senza ancora patriarcato e schwa, eravamo già entrati in un’altra èra. Sopravvive un po’ di antiberlusconismo in “1992”, la serie, in quel groviglio di complottismo e paranoia-movie all’americana. Ma frana, definitivamente, con “Loro” di Sorrentino, tributo malinconico e viale del tramonto non già del Cav., ma di questi lunghissimi anni d’inquietudine anti Cav. 

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