Meloni segue l'Agenda Draghi, mentre il Pd insegue l'Agenda Conte

Luciano Capone

Superbonus, accise, Ucraina. Su alcune scelte fondamentali di politica economica ed estera più la premier si ispira all'ex presidente della Bce, tanto più il Pd insegue quella del M5s

Enrico Letta ha condotto una campagna elettorale sostenendo che Giorgia Meloni fosse un pericolo per la democrazia italiana. Forse non ha completamente cambiato idea, ma ha dovuto ammettere al New York Times che la premier “è stata meglio di quanto ci aspettassimo”, attirandosi dure critiche nel suo stesso partito a partire dal suo vice alla guida della segreteria Peppe Provenzano. Ma se le parole del segretario del Pd descrivono l’evoluzione di Meloni, la reazione alle parole di Letta mostra anche l’involuzione del Pd.

 

Se Meloni da un lato per poter governare il paese in un periodo di crisi e acquisire credibilità sul piano internazionale ha dovuto abbandonare le scorie populiste e molte promesse insostenibili, dall’altro lato nel principale partito dell’opposizione c’è chi nel tentativo di mostrarsi più credibile agli occhi dell’elettorato ha iniziato a rinnegare alcune posizioni prese al governo e ad abbracciare una retorica populista. È come se l’Agenda Draghi, che Enrico Letta ha orgogliosamente sventolato in campagna elettorale, sia stata abbandonata dal Pd e sia finita negli “Appunti di Giorgia”, la rubrica sui social network in cui Meloni spiega l’azione di governo. E questa inversione dei ruoli è evidente su alcune delle principali questioni di politica economica ed estera.

 

L’ultimo caso è il Superbonus. Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sono dovuti intervenire per tamponare la falla nei conti pubblici (all’incirca 50 miliardi più del previsto, tra Superbonus e Bonus facciate) prodotta dal mega credito d’imposta a cessione illimitata introdotto dal governo Conte II. Mario Draghi ha ripetutamente descritto le enormi distorsioni prodotte da quella misura, che ha fatto lievitare i costi perché non ha alcun incentivo alla trattativa sul prezzo e che ha prodotto truffe che il solitamente pacato ex ministro dell’Economia Daniele Franco definì “le più grandi della storia della Repubblica”. Draghi e Franco, anche con l’appoggio del Pd, ma sotto enormi critiche e resistenze di M5s centrodestra, iniziarono a chiudere il rubinetto ed eliminare le distorsioni più visibili. Draghi sarebbe andato oltre, come ha chiaramente manifestato nel suo ultimo intervento al Senato, ma la maggioranza non esisteva più.

 

Meloni e Giorgetti, che si sono ritrovati a gestire questa bomba a orologeria sui conti pubblici e delle imprese, hanno proseguito su quella strada in maniera più incisiva: ridurre l’agevolazione del 110 al 90 per cento (per introdurre un minimo di contrasto di interesse) e bloccare la cessione dei crediti, per limitare l’impatto sul bilancio. Il Pd, responsabile di questo disastro perché con Roberto Gualtieri guidava il Mef quando venne realizzato, è ora passato dall’Agenda Draghi all’Agenda Conte accusando Meloni di “affondare il Superbonus”.

 

Qualcosa di analogo era accaduto con le accise. Meloni si è rimangiata le promesse populiste di tagliare le tasse sui carburanti e, molto opportunamente, come pure sosteneva Draghi, ha tagliato lo sconto da 30 centesimi sulle accise che era molto costoso (circa 1 miliardo al mese) e generalizzato (quindi regressivo) in una fase di discesa dei prezzi dei carburanti per tenere in equilibrio i conti pubblici in una fase critica. Il Pd, che pure ha una forte vena ambientalista e anti-fossile, guidato dal responsabile economico ed ex viceministro Antonio Misiani si è lanciato in una campagna per la proroga dello sconto sui carburanti che è tecnicamente un sussidio ambientalmente dannoso (Sad) e che, peraltro, avrebbe compromesso i conti pubblici. Dannoso per l’ambiente e per il bilancio, quindi.

 

Un discorso simile lo si può fare sulla politica estera. Giorgia Meloni ha raccolto il testimone di Draghi e mantenuto l’Italia su una salda linea pro Ucraina, la stessa che peraltro ha assunto sin dall’inizio e in maniera convinta Enrico Letta. Ma con il passaggio all’opposizione il Pd ha iniziato a sfumare la propria posizione, rendendola più ambigua nel sostegno anche militare a Kyiv, con diversi voti in dissenso sia nel Parlamento europeo sia in quello nazionale. Pierfrancesco Majorino, leader del Pd in Lombardia, è arrivato ad attaccare il governo Meloni per “l’aumento delle spese militari secondo l’accordo farsa realizzato in sede Nato”. Evidentemente per il Pd non conta che quegli impegni siano stati presi dal Pd e che il ministro della Difesa Guido Crosetto non stia facendo altro che portare avanti il piano di investimenti del suo predecessore Lorenzo Guerini. Che è uno dei massimi esponenti del Pd e attuale presidente del Copasir.

 

Evidentemente dopo le elezioni nel Pdsi è diffusa la convinzione che l’Agenda Draghi non porti tanti voti, ma lasciarla a Meloni per allinearsi all’Agenda Conte non è detto che produca risultati migliori.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali