Carlo Calenda (LaPresse)

Il centrocampo di Calenda, che vuole fare il Macron italiano: "A settembre lanciamo il terzo polo"

Valerio Valentini

Dall'adolescenza - "Al liceo bazzicavo i comunisti" - al ballo dei sogni con Violante. Ora vuole fare come il presidente francese, anche se preferisce Draghi. L’ultimo incontro con Letta, i rapporti con Renzi. "Ecco il mio fantagoverno”. Chiacchierata a tutto campo

"Allora, all’Economia Veronica De Romanis, o Carlo Cottarelli. Agli Esteri la mia amica Emma Bonino”. E questa era scontata. “Per quanto anche Lia Quartapelle, del Pd, non sarebbe male. Ma magari meglio farle fare un periodo da sottosegretaria. Alla Giustizia? Il nostro Enrico Costa, o sennò Giovanni Melillo, il nuovo procuratore nazionale Antimafia”. Sullo Sviluppo economico, il primo tentennamento. “Be’, Calen…”. La risposta esce immediata, spontanea. Ma la voce annega subito in un conato di contrizione. “Anzi, no. Colao. Vittorio Colao è bravissimo. Con magari uno come Giorgio Gori in squadra, però. E non perché Giancarlo Giorgetti abbia fatto male, anzi. Però forse starebbe meglio alle Infrastrutture, sono più roba sua. Al Sud Mara Carfagna, la confermerei. Ma anche Gelmini e Brunetta stanno facendo bene. Alla Difesa vedrei bene Guido Crosetto. Oddio, no, forse ci lascerei Guerini. Però magari a Crosetto una delega sull’aerospazio gliela si potrebbe trovare”.

 

Inizia a sembrare più un ufficio di collocamento, che un fantagoverno. “Dario Nardella alla Cultura, Stefano Bonaccini all’attuazione del Pnrr. Agli Affari europei Benedetto Della Vedova”. Poi l’entusiasmo stiepidisce. “Oh, però facciamo in modo che si capisca che è un gioco, un divertissement davanti al caffè. Sennò sembriamo due pazzi”. Suvvia, non ci si vede a leggere la lista, nello studio alla Vetrata del Quirinale? “In realtà no. Perché come presidente del Consiglio vorrei Mario Draghi. Se poi lui non vuole, mi candido io. Ma lui è più bravo di me”. Bisogna crederci, a questo inedito sfoggio di umiltà? “Eh be’, se non mi credete, che ci siete venuti a fare?”.

L’idea in effetti era di non impantanarsi nella politica, o quantomeno di farlo il meno possibile. Ché di politica Carlo Calenda parla sempre, parla troppo, parla dovunque. L’uomo, il personaggio: questo interessava. Un po’ di colore, un po’ di confidenze: e poi aneddoti, racconti, confessioni pruriginose. “Vanity Fair, praticamente”. Che sia un obiettivo abbastanza velleitario lo si è capito subito, comunque. E non solo perché tutto il privato, in Calenda, connota un personaggio pubblico ormai impensabile al di fuori della polemica politica: anche il suo carattere, questa sua assertività un po’ temeraria, questa sua non sempre apprezzabilissima supponenza, fanno parte di un armamentario retorico e tattico che lui usa quotidianamente, sui social e fuori. Ma soprattutto, che il prescindere per un paio d’ore dalla politica politicante fosse improbabile, è diventato chiaro quando l’ex ministro dello Sviluppo ci ha indicato il luogo dell’appuntamento. Si era concordato un posto dell’anima, un anfratto della sua Roma (“La mia adorata Roma”) a lui particolarmente caro: “Ai Fori imperiali”, e non era un ristorante. Pure casa sua, a via Rasella, in pieno centro, sarebbe andata bene. E invece l’invito è in corso Vittorio Emanuele, a metà strada tra il Campidoglio agognato un anno fa e largo di Torre Argentina, in questo appartamento al terzo piano di un bel palazzo signorile, ampio portone ad arco e scalinate larghe.

 

“Così vedete un partito serio”, ci dice Calenda, con tono fiero. L’impressione, sulle prime, è quella di un allestimento lasciato in sospeso: il logo di Azione su una parete, sull’altra la foto in formato manifesto di Calenda con Matteo Richetti; poltrone da sala d’attesa di studio medico e una libreria con un’antologia di risulta – si va da Adam Smith a Piketty, passando per Bauman e Mario Tronti, ma anche Kissinger, ma anche Petruccioli, e ovviamente molto Calenda– frutto, parrebbe, di donazioni spontanee. Il padrone di casa ci tiene però a dare importanza alla struttura, che non si parli più di partito liquido. E allora ecco la stanza operativa, con una decina di ragazzotti davanti a un pc, tutti sotto i trentacinque anni (“E tutti ben pagati: nessuno inizia da meno di 1.300 al mese”), e dirimpetto la stanza della comunicazione, e qui l’età media sembra, toh, più alta. Poi c’è l’ala riservata al centro studi, al momento vuota (“Ma abbiamo gente coi controcosi: a capo della nostra squadra d’analisi per il Pnrr c’è stata Silvia Vannutelli, che ora insegna alla Northwestern University, a Chicago”), e una sala per le riunioni che qui chiamano “il Pantheon”: alle pareti, con gigantografie sul tono dell’argento, John Stuart Mill e Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, Carlo Rosselli e Hannah Arendt. Winston Churchill sta invece in corridoio, a beneficio di tutti. Nel complesso, molta ansia di definirsi, molta voglia, e forse pure bisogno, di darsi un’identità, e magari anche un po’ di tono

 

L’ufficio del segretario dà invece sul corso. Dalla finestra, lì di fronte, ammonitiva, incombente, la Chiesa del Gesù. Al che la provocazione viene spontanea: dirimpetto alla sede storica dello Scudo crociato. “Democristiano a me?”, si indispone Calenda, quasi in versione Mario Brega in “Un sacco bello”. “Democristiano a me no, dai”, dice, parlando tra un ritratto di Piero Gobetti e di nuovo Churchill, ma col mitra in braccio, e per fortuna una testa di squalo bianco in plastica, ricordo della campagna elettorale romana, e che serve a rassicurare che in fondo non ci si prenda, neppure qui, troppo sul serio.

 

“In realtà, al liceo bazzicavo i comunisti”, confessa, mentre s’accende la prima di una lunga serie di sigarette che consumerà in queste due ore di chiacchierata. Ma come: i comunisti? “La sezione della Figc di piazza Mazzini. Il segretario era Gianluca Vacca, il figlio di Beppe, lo storico”. L’adolescenza che illude, la gioventù che travia. “Anche mio figlio era comunista, o almeno così diceva. Ma ora sono contento perché, attraverso questa fissa che gli è presa per Tolstoj, ha avuto tutta una svolta più spirituale, esistenzialista”. Si guarisce, insomma. Anche senza aspettare, petrarchescamente, le correzioni della vecchiaia. “Coi nostri figli io e mia moglie cerchiamo di essere molto liberali, sul piano educativo. Severi, per certi aspetti inflessibili, ma proviamo a non commettere gli stessi errori che i nostri fecero con noi”. Infanzia complicata, quella dell’Enrico Bottini del libro Cuore? “In realtà, anche se penso a mio nonno Luigi, più che della sua vena artistica mi ricordo del suo rigore di studioso. Architetto, curriculum eccellente. Di recente con mia madre, che seguì le sue orme nel cinema ma solo dopo essersi presa una laurea in Economia, come mio nonno pretese, abbiamo recuperato le sue vecchie pagelle, il suo libretto universitario: il massimo dei voti”. Un regista laureato. “Dall’altro lato della famiglia, mio nonno paterno era ambasciatore e diplomatico. Anche lì, molto rigore. A dieci anni mia madre mi regalò ‘Delitto e castigo’, mio padre un manuale di 2.500 pagine sulla Seconda guerra mondiale”. Che ansia. “Mi fu inculcato il valore della precocità, diciamo. Feci la primina perché dicevano che ero più maturo della mia età. Mi spronavano a frequentare gli adulti, non i miei coetanei. E forse questa faccenda del bruciare le tappe la presi fin troppo sul serio, e a 16 anni diventai padre”. Innamorato della segretaria del compagno di sua madre. “Aveva dieci anni più di me, a proposito di frequentare gli adulti, e dei bellissimi capelli rossi”. 

 

Poi, però, l’incontro con Violante. Finalmente, una della stessa età. “Ci conoscemmo a un ballo per festeggiare i diciotto anni, in una villa in Piemonte, vicino Dronero. Allora usava”. Usava in una certa middle upper class, diciamo. Le cronache dell’epoca dicono anche di feste in parrocchia, come massimo sballo per il diciottesimo. “No, la retorica proletaria no, però. Vi sto confessando un ricordo intimo, ci sono affezionato”. Ammettiamo: è unfair. Insomma, gran ballo. “Io in smoking, forse per questo mi ha considerato caruccio. Lei invece bella lo era davvero, bellissima. Ce l’ho ancora davanti agli occhi, con questo vestito lungo, questa acconciatura. Trent’anni insieme, da allora. Siamo una cosa sola”.

 

Stiamo scivolando davvero, sull’aneddotica svenevole da settimanale. “Vi racconto questa, allora, per spiegarvi che carattere che ha mia moglie”. Si alza, prende una fotografia che lo ritrae insieme al cardinale Zuppi: entrambi in giubbotto di pelle, accanto a una motocicletta, nel mezzo di quella che sembra una savana. Questa va spiegata. “Sarà stato il 2014 o 2015. Ero in Mozambico, come viceministro dello Sviluppo con delega al commercio estero, per definire una missione dell’Eni. Ero insieme all’attuale presidente della Cei, che si è speso tantissimo per la pace in quel paese. Insomma, mentre discutevamo col presidente Guebuza, lui ci dice che è impossibile garantire qualunque tipo di accordo economico e diplomatico finché non si trova una soluzione pacifica coi ribelli in armi che si rifugiavano nel parco di Gorongosa”.

 

Scusi, Calenda, sua moglie Violante, dicevamo. “Ci arrivo. In sostanza Guebuza ci lascia intendere che una mediazione del governo italiano, sotto l’impulso di Zuppi, potrebbe essere utile alla causa della pace. Io a quel punto faccio due telefonate. La prima è a Matteo Renzi, che era presidente del Consiglio e stava per iniziare non mi ricordo che vertice. ‘Pronto, Matteo, guarda, qui ci sarebbe questa opportunità, ma è pericoloso: bisogna farci accompagnare in moto, da agenti della sicurezza del presidente, in mezzo alla giungla, boh’. Lui mi interrompe: ‘Ma è una figata pazzesca. Vai subito, Carlo’. La seconda è a mia moglie”. Oh, ci siamo arrivati. “La chiamo, mi do un po’ di arie: ‘Sai, Viola, si tratta di andare nella giungla, a bordo di motociclette rombanti guidate da dei guerriglieri col mitra in spalla, senza casco, per andare a incontrare dei temibili miliziani ribelli’”. E’ svenuta? “Mi risponde: ‘Ah, ok. Vabbè, però senti una cosa: c’è Giulio che continua a prendere brutti voti, non studia più, stasera dobbiamo farci due chiacchiere’”.

 

Come mortificare la prosopopea di un romano nella giungla. “E dire che la missione fu assurda davvero. Il povero Zuppi cadde pure, in mezzo a una foresta, con la moto. Però l’incontro fu positivo, la trattativa andò bene”. Ma a casa Calenda il problema era col piccolo Giulio, che non s’applicava. “Mia moglie è così, ancor più rigida di me. Educazione siberiana. Quando mia figlia Livia cadde da cavallo, tempo fa, iniziò a lamentarsi perché aveva male al braccio. Ma siccome era rimontata subito e aveva finito l’allenamento, noi non le prestammo molto ascolto. Dopo due giorni, le facemmo fare le lastre. Gomito fratturato”. Ma è una roba per cui come minimo la denuncerebbero, oggi, sui social. “Sbagliammo, è vero. Ma è per dire qual è il senso del rigore, in casa”.

 

Ma non è quello stesso senso del rigore sotto il cui peso il giovane studente del liceo Mamiani collassò? “No. Siamo ferrei nello stabilire delle regole, questo sì. Ma siamo assolutamente liberali nel rispettare il percorso che i nostri figli vogliono fare. Quel periodo al Mamiani me lo ricordo bene. Fu una fase difficile, per me, è vero. Al primo anno due materie. Al secondo quattro. Al terzo bocciato, e con una figlia da crescere”. Gravidanza a parte, è in un certo senso tutto molto moderno. Questo Calenda che aborre le mode contemporanee è stato invece un precursore di questa sindrome d’ansia da prestazione che è ormai un male endemico nella generazione degli under 30. “E però li capisco poco. Io credo che molta di questa angoscia sia frutto, sì, di bizzarre aspettative famigliari, ma sia soprattutto portata dall’incapacità di comprendere la complessità del mondo. Si resta troppo a lungo in un giardino dell’Eden, che i genitori si premurano di rendere più lungo e più dorato possibile, in Italia. Tanto più che poi, in questa bolla ovattata, i ragazzi ci stanno come sprofondati nella propria dimensione personale: le mie voglie, i miei piaceri, i miei consumi. Poi, a trent’anni o giù di lì, si è costretti a mettere piede nel mondo, e ci si ritrova impreparati di fronte a un luogo ostile. E si crolla”. 

 

Se Calenda non crollò, però, fu anche perché suo padre, giornalista ed esperto di finanza, chiese al suo amico Luca Cordero di Montezemolo di assumerlo in Ferrari. “Calma. E’ vero che a Maranello andai su imbeccata di mio padre. Ma prima avevo già iniziato a cavarmela da solo. Quando divenni padre, i miei genitori furono chiari: loro avrebbero garantito le spese per la bimba, ma a me stesso avrei dovuto pensarci io. E mi misi a fare il promotore finanziario: telefonavo a gente presa a caso dall’elenco per piazzare delle offerte. E guadagnavo anche benino”.  Metodo pedagogico che si sentirebbe di diffondere? “A me pare che nell’educazione oggi il problema sia la mancanza di un quadro di valori reali, oggettivi. Una bussola, ecco. E qui da un lato c’è il problema che si è abolita la cultura delle regola, per cui ora un genitore come dovrebbe fare, poverino, a vietare al proprio figlio di usare lo smartphone fino a 14 anni”. E come dovrebbe fare? “Facendolo. Proibendoglielo. Punto. Dall’altro lato, ma sono le due facce di una stessa medaglia, c’è il disastro educativo di un paese che ha il sistema mediatico che ha, e una scuola che non si riforma davvero da sessant’anni”.

 

Proposte, allora. “Per quanto riguarda la scuola, il liceo dovrebbe essere obbligatorio per tutti. Per il figlio del notaio e per quello dell’operaio. La specializzazione dovrebbe arrivare dopo, e sul potenziamento degli istituti tecnici commerciali ho sempre spinto moltissimo. Ma sono convinto che prima serva una formazione di base che consenta ai ragazzi di avere una maturità culturale e spirituale tale da poter discernere, in questo delirante sviluppo tecnologico, cosa è anche progresso umano e sociale e ciò che invece è solo consumismo. Allenarsi alla ricerca del bello e del giusto; acquisire il piacere della partecipazione alla vita pubblica. Ecco, non saprei dire diversamente: è questo che manca. In Italia non si legge, non si va a cinema, a teatro, siamo penultimi in Europa per frequentazione di eventi culturali. Pensiamo davvero che non passi anche da qui, la salute di una democrazia?”. 

 

Il sistema informativo, si diceva. “I giornali posseduti da editori puri andrebbero finanziati dallo stato in modo consistente, con contributi equivalenti agli introiti derivati dalle vendite, a patto che nelle redazioni ci siano assunti regolari che godano degli standard della contrattazione nazionale”. E la Tv? La guarda? “Poco”. Di Carlo Fuortes che pensa? “Un manager capace, ma che nella palude della Rai trova resistenze enormi”. Eppure Calenda dice sempre che i veti e le lentezze della burocrazia sono di solito gli alibi a cui ricorrono i ministri incapaci. L’irreformabilità della Rai non è, pure quella, la scusa perfetta dietro cui ogni amministratore delegato si nasconde? “Ma la Rai è un’altra cosa. Viale Mazzini è il parco giochi con specchi deformanti in cui qualsiasi capocorrente può sentirsi Silvio Berlusconi per un quarto d’ora: e censurare, raccomandare, promuovere. Io credo che il canone sia fondamentale, ma  che debba andare a finanziare i prodotti di qualità, non le strutture. Allora dico: privatizziamo la Rai e creiamo una commissione di esperti che stabiliscano quali programmi e quali film siano meritevoli di un finanziamento statale. Ma ti pare che io devo foraggiare un presunto servizio pubblico che le cause e gli sviluppi della guerra in Ucraina, ma anche le elezioni francesi, ma anche il Covid-19, me le spiega con la Berlinguer che mi sta in diretta per quaranta minuti con uno che sta abbracciato a un tronco d’albero, che non si capisce se parla in qualità di scrittore, di alpinista, di scultore, di semplice citrullo, e che discetta di ogni ambito dello scibile umano? L’occidente sta morendo per la mancanza di limiti etici, per questa malintesa idea di relativismo per cui ogni scempiaggine deve trovare asilo nel dibattito pubblico, perché sennò è censura, è bavaglio”. 

 

E qui, a parlare di grandi valori, l’occhio cade sulla copertina del libro che Calenda tiene sulla scrivania. “La tessitura del mondo”, l’ultimo volume di Papa Francesco. “Io sono ateo, ma contrasto profondamente la progressiva secolarizzazione della società. Credo anzi ci sia un bisogno assoluto di spiritualità”. E della posizione di Bergoglio sulla guerra in Ucraina, che pensa? “Non la condivido per nulla. Anzitutto, non ritengo giusto che nella condanna totale al male assoluto della guerra si possano annullare le differenze tra aggressore e aggredito o far scolorire le responsabilità di chi la guerra l’ha provocata invadendo un paese libero e sovrano. Dopodiché, quando sento dire al Papa che non è suo compito distinguere i buoni dai cattivi, mi chiedo: ma se neppure il Papa, ormai, distingue tra buoni e cattivi, ma allora chi dovrebbe farlo?” 

 

E però in mezzo a tanta esecrazione della semplificazione, in questo ripudio generalizzato del pensiero comune dominante, c’è un Calenda che sui social sembra stare a suo agio nel flusso opprimente del momento. La sua aggressività verbale, il suo twittare compulsivo, non sono pure quelli il cedimento allo spirito del tempo? “Faccio notare che io i miei social me li gestisco da me. Non ho nessun Luca Morisi alle spalle, nessuna Bestia che scrive a nome mio”. Il che non necessariamente è un vanto, se è vero che la professionalità è apprezzabile ovunque. “A me Twitter torna utile per avere un contatto diretto coi miei elettori, anzitutto. Poi, sì, ogni tanto mi lascio trascinare nella polemica. Ma bisogna anche essere un po’ pop”. E dunque presentarsi come il leader dalla ragionevolezza, ma finire a fare dirette Instagram con l’Estetista cinica ed Er Faina? “Ma l’Estetista è un genio, non scherziamo. E’ una che dal nulla s’è inventata un’azienda che oggi fattura 70 milioni all’anno. Col Faina quella diretta la feci consapevole che mi sarei attirato critiche, ma sono andato lì a dire, davanti alla platea dei suoi follower, che molti dei valori coltivati in nome della romanità, il fatto che a noi ce piace da magnà e beve e del resto chissenefrega, erano sbagliati. E poi oh, dai, non è che si può essere così snob”. 

 

E sembra sincero, Calenda, in questo suo slancio popolare. Se non fosse che poi, di lì a un quarto d’ora, quando finalmente ci si inoltra nella discussione politica, subito torna alla sua ferma convinzione: “Santificare la gente, elevare l’umore comune a ragione assoluta, è sbagliato e pericoloso”. Ce lo dice perché, racconta, da qualche settimana, col perdurare della crisi dei rifiuti, gli capita spesso di essere fermato per strada da anonimi cittadini che gli confessano di non averlo votato alle comunali romane, e che però si sono pentiti, e che però se tornassero indietro, eccetera. Deve far piacere, viene da pensare. “Io invece per lo più li prendo a male parole. Avete votato? E ora ne subite le conseguenze. E non vale solo per Gualtieri, che pure è una brava persona, e non valeva neppure solo per la Raggi, che invece era un’incompetente vera. Il discorso è più generale”. 

 

E affrontiamolo, allora. “Prendiamo Palermo. Ci si è appena asciugati le lacrime dagli occhi per il trentennale della strage di Capaci, e i cittadini eleggono un sindaco sostenuto da Cuffaro e Dell’Utri. Oppure Parma: ma come è possibile che un sindaco che ha mandato sul lastrico i conti del Comune, che per il modo scriteriato con cui ha gestito le finanze pubbliche, cioè i soldi dei suoi cittadini, è stato costretto a patteggiare due anni per peculato e corruzione, come è possibile che uno così, dieci anni dopo, venga mandato al ballottaggio da quegli stessi cittadini? Possibile che il principio di responsabilità non valga mai, per gli elettori? Possibile che il popolo abbia sempre delle ragioni che la classe dirigente puntualmente non riesce a capire perché è ladra, corrotta?”.

E qui la tentazione di annuire è fortissima. Se non fosse, però, che anche questo attribuire all’ignoranza della gente le cause del proprio non riuscire ad avere la meglio sul populista di turno, pare un po’ un alibi dal corto respiro, se di mestiere fai il politico. Viene sempre in mente quella frase molto citata con cui Brecht derideva i mandarini del Partito comunista della Ddr: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”. E qui Calenda, che intanto s’è acceso la quarta sigaretta in un’ora, s’arrabbia. Perché, dice, “nessuno vuole scegliersi il popolo da cui farsi votare. Io però mi chiedo se davvero si può continuare a considerare normale questo processo per cui ogni volta si vota quello che fa più casino, tanto comunque di qui al prossimo voto avremo il tempo di ricrederci, di considerare pure lui un traditore farabutto, e di innamorarci di uno che dice panzane ancora più grandi, in una spirale di imbarbarimento generale del dibattito politico che fa sì che ora Giorgia Meloni abbia il 20 per cento”. 

 

Non le piace, par di capire, la leader di Fratelli d’Italia. “Ma non è che non mi piace. E’ che mi chiedo: su quale grande problema, fosse anche uno solo, l’ho sentita avanzare una proposta concreta, fattibile, negli ultimi due anni? Urla. La butta in caciara, ultimamente predilige farlo in spagnolo, per rinnovare un po’ il repertorio. Dice: sono Giorgia, sono italiana, sono una madre, sono cristiana. E a me sta bene. Pure io so’ Carlo, so’ padre e tutto il resto. Tanto piacere. Solo che poi, se al momento di indicare un candidato per la capitale di questa Italia a cui dici di essere tanto affezionata, mi proponi Michetti, quello delle bighe, allora oltre a essere Giorgia, madre e cristiana, secondo me sei anche un po’ scarsa. Dopodiché sì, è anche tatticamente molto capace, è furba. Ma davvero la riteniamo capace di governare l’Italia? Davvero, come leggo su molti giornali, è la figura che può guidare il centrodestra verso posizioni ragionevoli? Perché qui bisogna pure dircelo, una buona volta: le capacità degli opinionisti pensosi nell’accreditare i matti, in questo paese, è fenomenale. Partì Galli Della Loggia col M5s. E io non ci volevo credere. Poi fu il turno di Salvini, che dopo le Europee del 2019 sembrava diventato, a leggere certi sedicenti politologi liberali, l’Helmut Kohl che non ci eravamo accorti di avere. Per fortuna ha fatto il Papeete, così ci si è resi conto che era sempre Salvini, sempre lui, che nel frattempo non aveva fatto corsi ad Harvard. Solo che a quel punto serviva un altro punto di riferimento, e stavolta sono stati i progressisti a individuarlo in Conte. Ed eccoci qua. Adesso è il turno della Meloni: stavolta è lei, quella che sa interpretare gli umori profondi della popolazione. E che fai, non glielo vuoi concedere, pure a lei, un giro di giostra? Non sia mai. Vediamo quanto dura”.

 

E insomma, ora che mancano dieci minuti alla fine della chiacchierata (“Poi devo andare dalla Merlino, su La7”), l’intervista politica può finalmente cominciare. “Tanto lo so dove volete portarmi voi. Su Renzi”. Più che su di lui nello specifico, su questa vostra incredibile abilità nel litigare avendo, grosso modo, lo stesso progetto politico. “A parte che non direi che il progetto è lo stesso. Renzi, mi pare, punta a ottenere un accordo con Letta per le prossime politiche, così da vedersi garantita una manciata di seggi. Noi vogliamo costruire il terzo polo. Per due mesi gli ho scritto per chiedergli che intenzioni avesse sulle amministrative: è finita con Iv che in quasi tutti i posti in cui si creava una candidatura alternativa a quelle di centrodestra e centrosinistra, sceglieva di andare o col centrodestra o col centrosinistra”.

 

Ma non potrebbe rimproverarle la stessa cosa, Renzi? A Verona, con Flavio Tosi in campo, voi avete scelto Damiano Tommasi insieme a Pd e M5s. Al che parte una lunga rassegna delle singole città andate al voto, e per ognuna una complicata teoria di accidenti, di apparenti evidenze e di supposte prove a sostegno delle ragioni e dei torti degli uni e degli altri che è bene risparmiare a chi non condivide questa particolare perversione che è la politica locale vista da Roma. Meglio andare al punto. “E il punto è che io ritengo Matteo Renzi il miglior presidente del Consiglio che l’Italia ha avuto negli ultimi trent’anni. Il suo coraggio, la sua visione, le sue riforme: non devo essere io a farne l’agiografia. Sono fatti. Ma è un fatto anche il cambiamento del suo atteggiamento, della sua predisposizione alla politica, negli ultimi anni. Io ero con lui, a San Pietroburgo, nel 2016, quando parlò in favore dei diritti degli omosessuali sul grugno di Putin. Una roba da brividi. Ecco: con quel Renzi lì, io non avrei un attimo di esitazione a sedermi al tavolo. Ma non posso non notare che quello stesso Renzi oggi fa altre scelte, segue altri principi, e non fatemi tornare sulla faccenda dell’Arabia Saudita. Io penso che per essere credibile, come leader liberalriformista, servano nettezza e coerenza”.

 

Non sarà che c’è molto anche di concorrenza personale, di incompatibilità di due caratteri fin troppo simili, nella voglia di essere i primi della classe? “Quando mi scelse come ambasciatore italiano a Bruxelles, nello sdegno generale di tutte le feluche, ci divertimmo da matti. E facemmo anche un ottimo lavoro, perché ricucimmo uno strappo che c’era tra Juncker e il governo italiano, all’epoca, e perché impedimmo il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina, nonostante le pressioni in senso opposto di Francia e Germania. Da allora, non posso mettere piede a Pechino e dintorni. Per dire, insomma, che quando c’era sintonia sostanziale, delle divergenze caratteriali non ce ne fregava niente a nessuno dei due. Anche dopo, quando ero ministro e lui usava Teresa Bellanova, la mia vice al Mise, per bacchettarmi ogni volta che secondo lui alzavo troppo la testa, io più di tanto non mi scomponevo, perché nel frattempo stavamo facendo Industria 4.0, e su quello marciavamo compatti. Oggi, semplicemente, con questo Renzi qui, io non credo che possano esserci gli estremi per un accordo politico. Io vado per la mia strada”.

 

E dove porta? “A Milano, a settembre. E lì che terremo la convention programmatica del nuovo polo”. Un atto fondativo? “Sì. Ci saremo noi di Azione insieme a +Europa, ci sarà tutto il mondo delle civiche con cui collaboriamo già, e poi la Fondazione Einaudi, i Liberali italiani. E tanti ospiti, anche internazionali. Uno potrebbe essere grosso”. Che fa, Calenda, hype? “Sarà un grande evento. Lì nascerà il terzo polo”. Che punta, se abbiamo capito bene, a prolungare la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi. “Ammesso che lui voglia”. E vuole? “Chissà”, risponde il segretario, col tono di chi è convinto di avere riscontri positivi, o di chi comunque quella convinzione si sforza di esibirla. “Ma non starei a perdermi dietro ai retroscena. La vedo molto più semplice di come la raccontate. Stiamo attraversando un momento difficilissimo: una crisi diplomatica, la guerra, il rialzo dei tassi e tensioni finanziarie con cui non si può scherzare. Abbiamo il più bravo di tutti, che è Draghi, e dovremmo rinunciarvi per andare a inseguire le velleità sovraniste di Salvini e Meloni? Ma stiamo scherzando?”. E’ la democrazia, sunt qui dicunt. “Ma io infatti lo dico in modo chiaro: noi la formazione di un’alleanza Ursula, che isoli i populismi di destra e di sinistra e che rinnovi il mandato a Draghi ce lo abbiamo come obiettivo dichiarato”. Un voto ad Azione sarà insomma un vostro per Draghi premier. E’ lui il vostro candidato, volente o nolente. “E’ lui la persona di gran lunga più competente, credibile e affidabile. Se poi non vuole, che vi devo dire, mi candiderò io a presidente del Consiglio. Ma credo che lui sarebbe meglio, ecco”. 

 

In questa Ursula ci sarebbe anche quella che qui chiamano “la Lega di Giorgetti”? “E certo, perché no?”. Ma non è anche questo della Lega senza Salvini un ologramma a cui dà sostanza solo la stampa? “Io credo che Giorgetti, Zaia e Fedriga non stiano aspettando altro che di veder Salvini sfracellarsi alle politiche del 2023. E lì inizierà una fase nuova, nella Lega”. 

 

E con Letta? “Con Letta ci siamo visti mercoledì”. Notizia. “Abbiamo fatto un’analisi sulle amministrative, abbiamo ragionato di ballottaggi”. Scontato l’appoggio di Azione ai candidati di centrosinistra? “Diciamo che, passando in rassegna le varie sfide, vedo nomi migliori da quella parte”. E poi? Questa idea di Carlo Cottarelli per la Lombardia, sempre che intanto non vada davvero al Mef? “Mi limito a osservare che Cottarelli è a capo del nostro comitato scientifico ed è anche tra i saggi indicati da Letta per le Agorà democratiche. Il resto, non spetta a me dirlo”. 

 

Il leader internazionale che ama più di tutti. “Abramo Lincoln”. Vabbè. “Aveva una capacità che a me manca del tutto: l’arte del compromesso”. Contemporaneo, intendevamo. “Ah, facile. Mario Draghi”. Internazionale, s’era detto. “Mario Draghi”. Daje. “Lo ritengo migliore anche di Macron, sì, senza dubbio. E non solo perché evita di farsi fotografare da ganassa in maglione o mentre corre. E dovunque va, Draghi, annichilisce predecessori e successori. Ci sarà un motivo, no? Ma comunque, non fraintendiamo. Avercene, di Macron, in Italia”. E’ anche un po’ una figura simile a quella di Calenda (“Sì, a parte la pancia”): figlio di buona famiglia, un po’ secchioncello, un po’ saccentello. E anche il percorso politico, con le dovute proporzioni, batte gli stessi sentieri. “Mi ricordo quando, a Bruxelles, mi anticipò l’idea di volersi candidare all’Eliseo. Io ero ministro dello Sviluppo, e lui, da Bercy, seguiva le deleghe analoghe alle mie. C’era consuetudine. Un giorno mi dice: ‘Faccio un nuovo partito’. Tra di me dissi: ‘Eccone un altro che non ha imparato nulla dall’esperienza italiana’. E invece aveva ragione”.

 

E adesso in Italia è pieno di gente che vuole fare “come Macron”. “Ma io ci credo nel profondo che Azione la porto al 20 per cento. Non a questo giro. Per il 2023 punto al 10. Ma poi cresceremo ancora. Non è una bolla, questa. E’ un partito serio”.

E i figli del segretario lo voteranno, questo partito? “Thay, che fa la fotografa in Francia, credo sia un po’ troppo a sinistra, per me. Giulio è in una fase di ricerca: si sta definendo, ed è giusto così. Livia e Giacomo sono ancora piccoli, per fortuna”. E i genitori che stavano in Lotta Continua, lo voterebbero? “Fu una stagione, quella. Se ne allontanarono quando il movimento iniziò a prendere una piega violenta”. Anche loro, comunque, più a sinistra di Calenda. Una vita da disconosciuto, da proscritto in casa. “Ma no. In realtà mio nonno paterno era un repubblicano liberale. Luigi Comencini era un socialista, un azionista. Se la vedi così, questo partito è una sintesi perfetta”. Quanta strada si è disposti a fare, per tornare a fare pace con le proprie origini. “Ce ne è ancora da fare, di strada. E poi c’è pure traffico”. Per arrivare a Palazzo Chigi, dice? “No, per gli studi di La7”.

 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.