Sulle diseguaglianze i governi hanno più colpe dei mercati
La società italiana è caratterizzata da profonde disparità territoriali, generazionali e di genere. Ma sono il risultato di precise decisioni politiche
La lotta alle diseguaglianze è stato uno dei temi centrali del discorso d’introduzione del secondo settennato del presidente Sergio Mattarella. “Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita”, ha spiegato, “sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita”. Per questo motivo, Mattarella ha chiesto l’impegno di tutti a “rimuovere gli ostacoli”. Un invito che i grandi elettori hanno accolto senza esitazioni. L’applauso che ha segnato questo passaggio è stato, infatti, uno dei più lunghi. Il compito è certamente arduo. La società italiana è caratterizzata da profonde disparità territoriali, generazionali e di genere che l’attuale crisi non ha fatto altro che acuire. Queste disparità, tuttavia, non sono inevitabili. Al contrario. Sono il risultato di precise decisioni politiche. La letteratura in questo ambito è chiara: la disuguaglianza è una scelta, non un evento esogeno. Di conseguenza, le parole di Mattarella andavano interpretate come un monito nei confronti di chi – negli ultimi anni – ha contribuito a costruire una società sempre più diseguale. Davvero stupisce che i parlamentari presenti in aula non se ne siano resi conto. Per capire dove sono le responsabilità è sufficiente analizzare la gestione dell’attuale crisi. Il Covid-19 ha colpito tutti. L’impatto, però, è stato asimmetrico. I giovani e le donne hanno pagato il prezzo più elevato. Non c’è da stupirsi. Già prima della pandemia queste categorie erano in uno stato di forte vulnerabilità sociale e lavorativa. Pertanto, avrebbero dovuto essere messe al centro dell’azione di governo. Non è andata così. L’adozione di diversi provvedimenti (che oggi appaiono difficili da giustificare) ha – se possibile – aggravato ancor di più la loro posizione. Di seguito qualche esempio.
In primo luogo, si è scelto di chiudere la scuola. Per ben trentotto settimane. Un record. Peggio di noi hanno fatto solo la Slovenia e la Polonia (ripetitivamente 47 e 43 settimana). In Francia, solo per fare un esempio, i ragazzi hanno perso “solo” 12 settimane di insegnamento. La didattica a distanza (Dad) è sembrata la scelta più facile. Anche perché si è potuto contare sul contributo delle donne: in Italia una donna su due non lavora, al Sud due su tre. Le altre, quelle fortunate con un un’occupazione, sono ricorse al congedo parentale (strumento utilizzato per il 90 per cento dalle donne) oppure, nei casi peggiori, alle dimissioni (il 77 per cento di chi ha lasciato il lavoro nell’anno della pandemia sono donne). E, così, in un colpo solo la Dad, prolungata all’inverosimile, ha contribuito ad accrescere sia il divario di genere sia quello sociale tra minori. Gli studi a disposizione parlano chiaro: i figli delle famiglie più disagiate hanno accumulato un ritardo in termini di capacità di apprendimento difficilmente colmabile.
L’altro esempio che dimostra come le scelte di politica economica abbiano aumentato le disuguaglianze è quello del blocco dei licenziamenti. La misura è stata introdotta all’inizio della pandemia ed è durata per oltre un anno e mezzo. Nessun altro paese europeo, ad eccezione della Spagna e della Grecia (sebbene per un periodo ben più breve), ha utilizzato questo strumento. L’obiettivo era quello di evitare licenziamenti di massa. Un timore infondato. Eliminato il blocco, l’ecatombe attesa non si è verificata. Chi era tutelato ha continuato ad esserlo. Chi invece non lo era, ossia le donne e i giovani, ha pagato un prezzo altissimo. I costi della crisi sono stati scaricati principalmente su di loro.
L’ultimo esempio è quello del bonus 110 per cento costato allo Stato (per ora) circa 16 miliardi. La misura è regressiva, cioè avvantaggia i più abbienti. Draghi stesso lo ha chiarito. E per questo ha provato a correggerla attraverso l’inserimento del tetto ISEE. Il Parlamento, però, non lo ha assecondato. La motivazione dagli esponenti del Movimento 5 Stelle – ideatori del sussidio – è semplice: favorisce la crescita. Ne sono convinti. Nonostante i dati disponibili dimostrino il contrario. A questo proposito, andrebbe spiegato loro che spendere non è una condizione necessaria per crescere, soprattutto se si vuole crescere in modo inclusivo. Peraltro, spendere a debito per un bonus come quello del 110 per cento non solo accresce le disuguaglianze presenti ma anche quelle future.