Prove di coalizione

“Con Pd e M5s? Neanche per 50 seggi sicuri”, dice Calenda a Letta

Valerio Valentini

"Un modo che avrebbe per mettermi davvero in difficoltà, sarebbe mollare il Movimento. A quel punto, mi sarebbe difficile dirgli di no", ci dice il leader di Azione

Il problema, dice lui, è che non lo leggono. “O, se mi leggono, non mi capiscono, o magari non mi credono”. E sì che il pensiero di Carlo Calenda, almeno quello pubblico, pretende d’essere lineare: “Io, se ci stanno i Cinque stelle, nel campo largo non ci entro proprio. E in generale non faccio accordi con un Pd a trazione massimalista”. La prova l’ha data a Roma, insiste. “Anche lì, gli strateghi capitolini del Pd, quella che la sanno lunga, hanno ripetuto per mesi che alla fine avrei ceduto, avrei fatto l’accordo, che stavo facendo i capricci per un assessorato. Ecco, siccome abbiamo visto com’è andata, lo anticipo già: per le regionali, se si vuole puntare su Alessio D’Amato, l’assessore alla Sanità che ha svolto un lavoro eccellente durante la pandemia, ci mettiamo cinque minuti a trovare un’intesa. Ma siccome anche lì Goffredo Bettini s’è già messo di traverso, spingendo candidati a mio giudizio improbabili, ecco, glielo dico fin d’ora: Azione non sosterrà Enrico Gasbarra o Daniele Leodori”.

 
E però, più che per il Lazio, c’è da capire cosa si farà per le politiche. “Ma anche qui, il fraintendimento deriva dal fatto che al Nazareno credono di sapere meglio di me cosa farò”. Scommettono sul fatto che alla fine l’accordo col Pd lo siglerà. E in effetti, che sia una speranza forse coltivata con un eccesso di confidenza, lo dimostra anche la perplessità che cova nell’ala riformista dei dem. “Letta crede che mi convincerò, o che quanto meno mi rassegnerò, a entrare in coalizione col Pd e col M5s. Ma a parte che non voglio allearmici, io, coi 5 stelle, qui la questione è un’altra: a me non conviene allearmi con loro”.


E si sa che la convenienza è un incentivo assai più forte della convinzione. Col 5 per cento, ha fatto di conto Matteo Richetti, Azione e +Europa otterrebbero una trentina di parlamentari. Con l’8 per cento, che considerano alla loro portata, si arriverebbe a 50 eletti. “Per cui, anche a voler essere cinico, questo sarebbe il prezzo: cinquanta seggi blindati. Se Letta me li offrisse, allora forse indurrebbe qualcuno dei miei a pensarci davvero”. E’ l’inizio di una conciliazione amichevole? “No, perché comunque io non ci starei. Forse a quel traguardo mira Matteo Renzi, non so. Di certo non io: significherebbe perdere ogni credibilità”. E del resto significherebbe anche, per Letta, cedere spazi eccessive in delle liste su cui, certo, si sa già che il Pd dovrà fare esercizio di generosità con chi frequenta gli immediati dintorni del partito, ma che di spazi rischierebbero poi di conservarne pochi per chi del Pd fa parte. “Semmai, un modo che avrebbe Letta per mettermi davvero in difficoltà, sarebbe mollare il M5s. A quel punto, mi sarebbe difficile dirgli di no. Ma so che non accadrà, quindi resto tranquillo. E infatti  stiamo già equipaggiando la macchina per la raccolta delle firme, secondo le prescrizioni di legge. Mi metterei a fare questo bailamme, se puntassi a qualche strapuntino nelle liste del Pd?”.


E poi, di nuovo, la convenienza. “Noi abbiamo un senso se giochiamo il ruolo degli interdittori”. Impedire, cioè, che sia una i rossogialli sia il centrodestra ottengano la maggioranza. “Sì, però occorre essere realisti. Col M5s che è ridotto a brandelli, una maggioranza progressista demogrillina non è pensabile. Resta solo l’altra opzione. E dunque bisogna essere realisti: l’unico scenario per cui non si avrà la Meloni a Palazzo Chigi è fare in modo che a Palazzo Chigi ci torni Mario Draghi. Noi, la nostra forza parlamentare la spenderemo per quel fine. E non penso che sarebbe serio farlo alleandosi con chi, come Conte e la Taverna, lavorano da mesi per mettere in difficoltà Draghi”. E s’intravede un M5s più governista: meno Conte e più Di Maio? “Ah, se Di Maio rimpiazzasse Conte sarebbe già qualcosa. Se non altro, farebbe meno danni”. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.