L'addio di Bentivogli al sindacato può essere un'ottima notizia per la politica

Luciano Capone

Riformismo vs nostalgia. Ieri le dimissioni dalla Fim-Cisl

Roma. “Non pensate a nessun rammarico e a nessuna dietrologia, ho sempre detto che bisogna fare più esperienze possibili per continuare a dare il senso alla propria esistenza, ho appena compiuto 50 anni e dopo 25 anni di Fim penso sia giusto cambiare reparto nel proprio impegno”. Con una lettera, indirizzata ai vertici della Fim e al segretario generale della Cisl Annamaria Furlan, Marco Bentivogli si è dimesso da segretario generale dei metalmeccanici della Cisl. Bentivogli parla solo degli ultimi 25 anni della sua vita, quelli in cui partendo da attivista è arrivato ai vertici della Fim, ma in realtà anche i primi 25 anni sono caratterizzati dal sindacato. Persino il suo luogo di nascita, Conegliano, dipende dall’attività sindacale, visto che la sua famiglia si era trasferita a Treviso proprio perché suo padre, Franco Bentivogli, aveva assunto l’incarico di segretario provinciale e poi regionale della Fim-Cisl, prima di entrare nella segreteria nazionale e diventare segretario generale dei metalmeccanici nel 1974, succedendo al grande Pierre Carniti. Non deve essere stato semplice, per uno che è stato per mezza vita figlio di sindacalista dei metalmeccanici e per l’altra metà sindacalista e guida dei metalmeccanici, lasciare la Cisl che è stata la sua casa, la sua famiglia, la sua scuola e il suo lavoro. 

 

 

Il diretto interessato non vuole commentare né spiegare il motivo di questa decisione e preferisce lasciar parlare la lettera di dimissioni, che però non spiega molto. “C’è un tempo per ogni cosa e per me è giunto il momento di lasciare spazio ad altri. Questa è sempre la migliore condizione per proteggere la Fim e tutte le sue donne e gli uomini nelle sfide sempre più alte che solo il sindacato riformista ha il coraggio di assumersi”. Le dimissioni sono improvvise, probabilmente scatenate da qualche evento recente, ma giungono dopo anni di rapporto burrascoso con il vertice della Cisl che non ha mai del tutto sopportato i modi diretti e il carattere forte del leader dei metalmeccanici. Al momento vengono smentite le voci che parlano di un ingresso in politica o di un incarico da qualche altra parte. Non si conosce quindi il futuro, ma di certo si può tirare un bilancio della sua attività da sindacalista. 

 

 

L’impronta di Bentivogli è racchiusa in quelle due parole richiamate nella lettera: coraggio e riformismo. Seguendo questi due principi Bentivogli ha guidato controcorrente il sindacato, sottraendolo negli anni della crisi al riflusso massimalista ben pompato dai medi per portarlo a raggiungere importanti risultati. E’ stato il principale artefice, insieme a Sergio Marchionne, dell’accordo innovativo con la Fiat che ha evitato la chiusura di stabilimenti come Pomigliano d’Arco e salvato di fatto l’industria automobilistica italiana. Mentre la Fiom si alzò dal tavolo della trattativa, la Fim-Cisl insieme agli altri sindacati proseguì il negoziato, concluse l’accordo e andò a difenderlo in fabbrica tra i lavoratori. Se nel referendum avesse prevalso il “no” – per cui combattevano la Cgil e la Fiom di Maurizio Landini – lo stabilimento di Pomigliano avrebbe chiuso i battenti e poi sarebbe toccato a quelli di Melfi, Cassino e Mirafiori: “Quell’accordo impegnò manager e azionisti di Fiat a evitare altre chiusure di siti produttivi nella crisi più devastante del settore automotive degli ultimi 50 anni”, commentò Bentivogli. Coraggio e riformismo quindi, in questo Bentivogli ha rappresentato per il sindacato ciò che Marchionne è stato per Confindustria. Questa impronta si è vista anche su tante altre questioni fondamentali del mondo del lavoro. Bentivogli è stato uno dei pochi sindacalisti, forse l’unico con il coraggio di affermarlo con convinzione e senza balbettare, pienamente favorevole alla globalizzazione e alla tecnologia. Ha sempre sostenuto che il futuro del lavoro dipende dall’innovazione, e non dalla difesa dell’esistente, per questo ha spinto molto sul piano Industria 4.0 lanciato dall’allora ministro Carlo Calenda. E’ uno dei pochi sindacalisti che non ha appoggiato quota 100 e che alle pensioni e all’assistenzialismo ha sempre preferito parlare di fabbriche, lavoro, investimenti, produttività, tecnologia, formazione e riforma degli ammortizzatori sociali. Per gli stessi motivi ha contrastato la folle gestione del dossier Ilva e si è opposto ai progetti di nazionalizzazione che riporterebbero lo stabilimento agli anni più bui della sua storia. Coraggio e riformismo da contrapporre a nostalgia e populismo. Il sindacato ha perso un leader coraggioso e riformista, che però è proprio ciò che manca alla politica.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali