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L'ultimo piano su Ilva è solo la conferma degli errori fatti fin qui

Annarita Digiorgio

ArcelorMittal presenta la terza bozza di piano industriale in sei mesi e ribadisce il tetto di 5.000 esuberi. Il contratto firmato da Carlo Calenda, lo scudo penale, cronaca di come siamo arrivati a questo punto

Una nuova ipotesi di piano industriale Ilva, elaborata con la società di consulenza Boston Consulting, è stata presentata ieri da ArcelorMittal al governo. Siamo alla terza bozza nel giro di sei mesi. Tutte formalmente secretate, di cui i ministeri fanno trapelare solo alcune indiscrezioni. Certamente quest'ultima è la più veritiera, poiché l’unico piano realistico che possa tenere in piedi Ilva sul mercato, ArcelorMittal lo ha indicato da tempo: 5.000 esuberi e produzione dimezzata. Tutto il resto è un vano tentativo del governo di indorare la pillola e prendere tempo, fingendo di respingere la proposta dell’azienda con altri fantomatici piani industriali, numeri di fantasia, e il passepartout dell’acciaio verde. Un vuoto bla bla ripetuto perché in questo momento è impossibile per il governo riuscire ad ammettere che in Ilva 5.000 operai sono di troppo e vanno gestiti o con esuberi o con cassa integrazione. Ma, soprattutto, è dura ammettere che Palazzo Chigi ha sbagliato a sciogliere l’unico vincolo che li teneva tutti salvi: il contratto firmato da Carlo Calenda, che prevedeva 10.700 dipendenti fissi e reintegro dei 1.600 cassintegrati di Ilva fino al 2023, con una penale di 150 mila euro per ogni esubero fuori contratto. 

 

Contratto che all'epoca mise d’accordo tutti, i lavoratori e l’allora capo del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio, che nel settembre 2018, alla guida del Mise, l’intesa sindacale a zero esuberi e obbligo di 4 miliardi di investimenti totalmente a carico del privato.

Successivamente, e segretamente, come svelato solo in tribunale, lo stesso Di Maio firmò un nuovo contratto con ArcelorMittal che, nei fatti, inseriva la possibilità di scioglimento se fosse venuta meno la clausola dello scudo penale. Cosa che guarda caso si è verificata, con il consenso parlamentare del Partito democratico.

“Complimenti a chi ha tolto lo scudo penale dalla scorsa estate e ha dato un ottimo alibi all'azienda per disimpegnarsi” ha commentato ieri il segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli. 

 

A questo punto, sciolto il contratto, i 5 stelle avrebbero potuto finalmente chiudere Ilva, se, come disse Di Maio dopo aver letto le 25 mila pagine del dossier, era quello il delitto perfetto commesso dal Pd che li costringeva a tenere aperta la fabbrica. 

E invece, trasferito nel frattempo il dossier direttamente alla presidenza del Consiglio, con l'avvio del governo Conte due, il premier indicato dal Movimento che voleva chiudere Ilva, prima ha portato ArcelorMittal in tribunale per costringerla a rispettare quel “delitto perfetto”, poi il giorno della vigilia di Natale, davanti agli operai riuniti in assemblea all’interno della fabbrica, con accanto il presidente di ArcelorMittal, Lucia Morselli, ha annunciato di aver abbandonato la battaglia legale del secolo preferendo raggiungere un accordo con l’azienda, precipitandosi quindi direttamente a Londra per incontrare Lakshmi Mittal. 

 

Il nuovo accordo, firmato il 4 marzo al tribunale di Milano con la rinuncia alla causa civile, era una bozza da definire entro novembre, fondata su una newco con ingresso dello stato tramite Invitalia, e la possibilità per Arcelor di uscire o prima con una penale da 500 milioni, o successivamente in caso di mancato dissequestro degli impianti da parte della procura che ne ha ancora la custodia.

 

Per la definizione del nuovo piano è stato riunito per settimane un tavolo che oltre alle società di consulenza incaricate rispettivamente dai commissari Ilva in Amministrazione straordinaria (proprietaria degli impianti) e degli affittuari di ArcelorMittal, ha visto protagonisti per conto del governo i consulenti Francesco Caio, e il rientrante Enrico Laghi, già commissario Ilva (ma anche Alitalia), defenestrato solo qualche mese prima dall’Amministrazione straordinaria. 

A loro si è aggiunto negli ultimi mesi Ernesto Somma per conto di Invitalia, in attesa che il suo direttore Domenico Arcuri, finito con le mascherine, potesse tornare a occuparsi a tempo pieno dell’ingresso pubblico in Ilva. 

Tutto questo mentre il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, invitando ArcelorMittal all’uscita definitiva, dichiarava apertamente di preferire Cassa depositi e prestiti, portando in superficie la rivalità tra il suo ministero e quello dell'Economia, con il ministro Roberto Gualtieri e l’ala del Pd a lui vicina, legati all’attuale amministratore delegato Lucia Morselli. 

 

L’ultimo piano proposto dall’azienda, insieme ai 5 mila esuberi, prevede 2 miliardi di intervento pubblico: 600 milioni di prestito Sace, 200 a fondo perduto per Covid, 1 miliardo per l’ingresso pubblico nella quota azionaria, e addirittura, il trasferimento di una parte dei fondi sequestrati ai Riva. 

Si tratta del miliardo e 300 milioni di euro che nel 2016 Matteo Renzi riuscì, con un lungo negoziato volto al definitivo abbandono di ogni contenzioso da parte della famiglia Riva (estromessa da Ilva nel 2014 attraverso un commissariamento statale), a far rientrare dalla Svizzera vincolandoli alle bonifiche. Bonifiche che spettavano all’Amministrazione straordinaria ma che non sono mai partite (non a caso i lavoratori rimasti alle sue dipendenze sono tutti in cassa integrazione).

Sarebbe una beffa se ora quei soldi venissero svincolati dalle bonifiche e trasferiti ad ArcelorMittal. Non fosse altro che a deciderlo sarebbe quel governo che, mentre accusa i predecessori di aver commesso il delitto perfetto, ripeteva, con la sua anima dem, la favola dell’acciaio verde, e con quella a 5 stelle blaterava di bonifiche e riconversione. 

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