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Il gran ballo populista intorno a Fca

Renzo Rosati

La controllata italiana del gruppo, che ha sede a Torino, ha richiesto un prestito per tutelare stabilimenti e posti di lavoro in Italia. I contribuenti non sborseranno soldi direttamente (a differenza di Alitalia). Ma c'è chi preferisce fare propaganda

L’euforia da liberi tutti sta dando alla testa a diversi esponenti politici, per ora prevalentemente di sinistra e del M5s, ma si aspetta il prezioso contributo dei nazionalisti in mascherina tricolore. Il motivo è in quello che viene presentato come “prestito pubblico a Fca, ingenti finanziamenti a un’azienda che ha domicilio fiscale a Londra, e alla quale come minimo bisognerebbe chiedere di riportare la sede in Italia”. Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, dixit.

 

 

Ricapitoliamo, anche a beneficio dello stesso Orlando, che da par suo attende intanto “dotti sermoni sul libero mercato”. Fca Italy che ha sede a Torino (è la sua capogruppo Fiat Chrysler che è fiscalmente domiciliata nel Regno Unito) ha ottenuto non dallo stato né tantomeno dal governo, ma da Intesa Sanpaolo un prestito a tre anni da 6,3 miliardi, parzialmente garantito dalla Sace, azienda partecipata da Cassa depositi e prestiti e ministero dell’Economia. La garanzia rientra tra i 155 miliardi presenti nel decreto liquidità con lo scopo di tutelare le aziende grandi e piccole, a cominciare da quelle strategiche, con finalità principali il mantenimento dell’occupazione e la messa al riparo da scalate ostili straniere. Non comporta esborso diretto di denaro dei contribuenti.

 

L’operazione è comunque al vaglio di Intesa, altro soggetto privato. La richiesta ha appunto come clausola la tutela del posto di lavoro dei 54 mila occupati di Fca e della filiera auto italiana, pari a circa 300 mila occupati. Pochi giorni fa Exor, la holding di controllo della Fca londinese, ha rifiutato la richiesta di ribasso sui 9 miliardi concordati del gruppo assicurativo francese Covea per l’acquisizione di Partner Re, controllata americana di Exor. La trattativa era già in fase avanzata con la firma un memorandum of understanding, e ora presumibilmente Covea dovrà affrontare un contenzioso legale per inadempienza.

 

Dunque se gli azionisti Agnelli avessero voluto semplicemente e rapidamente far cassa cedendo agli stranieri avrebbero accettato il ribasso, senza il vincolo di impiegare la liquidità a tutela degli stabilimenti italiani e del loro indotto: oltretutto proprio con la Francia dovrà entro l’anno andare in porto la fusione paritetica con Peugeot-Citroen (Psa), e un certo appeasement portava in questa direzione. Non solo. L’azienda ha cancellato il dividendo ordinario 2019 di 1,1 miliardi, come (quasi) tutti i gruppi che subiscono la crisi della pandemia, che si somma a quella dell’auto, e che chiedono direttamente o indirettamente garanzie pubbliche.

 

Ovvio che agli imprenditori non si chiede di essere santi, e neppure navigatori e poeti: però di saper fare il loro mestiere, il che si traduce nel produrre e nel creare occupazione. Renault e Psa hanno chiesto garanzie allo stato francese, che oltretutto ne è co-azionista, e il ministro dell’Economia Bruno Le Maire si è detto pronto ad aiutarle, anche con incentivi, “a condizione che mantengano le fabbriche in Francia”. Si tratta rispettivamente di sei stabilimenti sui 18 sparsi per il mondo per Renault, e di 5 su 18 per Psa.

  

 

Fca ha otto stabilimenti in Italia, oltre a due di Maserati e Ferrari; l’intero gruppo ne ha un centinaio nel mondo. Per anni, dopo la crisi del 2009 e in èra Sergio Marchionne, il trasferimento nelle fabbriche del Sud della produzione della Jeep ha garantito quasi da solo il mantenimento del pil, dell’export e dell’occupazione. Nel Pd c’è chi ne è ben consapevole: il viceministro dell’Economia, Antonio Misiani, trova naturale “che lo Stato italiano debba preoccuparsi dei dipendenti di Fca, esattamente come deve preoccuparsi della sorte delle attività commerciali e di tante attività economiche andate in difficoltà”. Come del resto stanno facendo tutti i governi europei, anche premendo per l’ingresso diretto di capitali pubblici nelle aziende. Come quello tedesco che intende acquisire il 25 per cento di Lufthansa. E che promette ai big dell’auto di diluire i tempi verso la transizione elettrica. Quello italiano, oltre a finanziare i monopattini, ha nazionalizzato l’Alitalia con ben tre miliardi di capitale diretto, e nessuno ha battuto ciglio. Ma a quanto pare il semplice evocare la parola Agnelli qui da noi evoca l’immagine dei profittatori di stato: nella sinistra, in una parte del sindacato, nel populismo di ogni parrocchia.

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