Ursula von der Leyen (LaPresse)

Mes prima, Mes dopo

Valerio Valentini

Lo spettro di Ursula che piace al Pd. “Con Conte, mai”, dice Cattaneo (FI). Ma a luglio la Camera sarà un Vietnam

Roma. Se è vero che la solerzia, a volte, tradisce le speranze, allora è chiaro che i deputati del Pd non aspettavano altro. E così, quando Forza Italia ha deciso di non seguire Lega e FdI sulla via di uno sbracato Aventino, hanno subito fotografato la scena: “La nuova maggioranza europeista è in Aula”. Eccola, dunque, la fretta dei dem di vedere compiuto un cambiamento ancora tutto in divenire, nella nebulosa caotica della politica italiana. “Noi usciremo dall’Aula”, aveva annunciato ai colleghi del centrodestra, fin dal mattino, il capogruppo meloniano Lollobrigida. A quel punto, nella Lega s’è sparso il terrore di non essere abbastanza sovranisti: “Tutti fuori pure noi”. Perfino quel Giancarlo Giorgetti che, al momento dell’insubordinazione dei suoi, stava seduto a parlottare con Paolo Barelli, deputato forzista e presidente della Federnuoto, e s’è accodato allargando le braccia: “Tanto, ormai…”. 

 

Ormai, era il senso del ragionamento di Giorgetti, la nuova maggioranza Ursula già c’è. “In realtà è solo un incidente d’Aula, nulla più”, precisa la capogruppo azzurra Mariastella Gelmini. Ma se perfino Federico Fornaro, suo omologo di Leu, si profonde in pubblici ringraziamenti al senso di responsabilità di Renato Brunetta, vuol dire che forse un processo politico è davvero in moto. “Più che favoleggiare di una nuova maggioranza da creare”, sbuffa Giorgio Mulè, “nel Pd e in Leu pensino al fatto che senza di noi loro sono in minoranza, sul Mes. Noi al sovranismo siamo immuni, non ci servono i test per dimostrarlo. Semmai, è proprio perché europeisti lo siamo davvero, e a favore della crescita anche, che l’union sacrée per Giuseppe Conte non ci convince”. E’ questo, allora, l’impedimento? Alessandro Cattaneo, rappresentante di quella pattuglia di quarantenni azzurri che a un affrancamento definitivo dal giogo sovranista ci pensa da tempo, si stringe nelle spalle: “Noi europeisti lo siamo da sempre. Ma Conte, che era il premier orgogliosamente populista, quello del ‘faremo da soli’, per noi non può essere un premier buono per tutte le stagioni. Ne ha già attraversate due, entrambe poco dignitosamente. Ora anche basta”.

  

E insomma l’enigma è tutto qui, pare: se FI si stancherà della compagnia sovranista prima di quando il Pd si stancherà di Conte. Forse anche per questo, tra i dem, c’è chi considera il Mes non tanto un ostacolo da scongiurare, ma un inciampo da propiziare per far esplodere le contraddizioni grilline e aprire una nuova fase. Un incidente d’Aula da organizzare al più presto, magari a inizio luglio, prima di chiedere un ulteriore nuovo scostamento di bilancio. Martedì, la riunione del correntone riformista di Luca Lotti e Lorenzo Guerini è stata assai agitata. “Il Pd è l’architrave della responsabilità”, catechizza i suoi il ministro della Difesa. “Ma qualsiasi architrave ha un limite massimo di tenuta”, mugugna Enrico Borghi. Che ieri ha preso da parte il ministro grillino Federico D’Incà e gli ha preannunciato che, stando così le cose, “a luglio alla Camera sarà un Vietnam”.

  

Lo sarà soprattutto sul terreno paludoso del decreto “Rilancio”, un testo che è diventato ancora più complicato dopo che il governo ha varato l’anticipo della cassa integrazione, che dovrà essere inserito con un emendamento che, a sua volta, si trascinerà tutta una serie di possibili trappole e provocazioni sotto forma di subemendamenti. “Non è questione di ostruzionismo, ma di razionalità”, dice il forzista Cattaneo. “Per la medicina territoriale, il governo ci ha spiegato che di soldi non ce ne sono, che dobbiamo scannarci sugli 800 milioni di briciole che ci hanno lasciato di margine. E però non si vuole attingere al Mes: ma che senso ha?”.

 

Dovrebbe arrivare in Aula il 24 giugno, il “Rilancio”: ma i relatori di maggioranza sono già rassegnati a uno slittamento. E così anche la data del 18 luglio, quando il decreto scadrà, appare ora maledettamente vicina. E tribolata, pure, perché al Senato il testo arriverà blindato, e questo ai senatori non piace. “E’ un monocameralismo di fatto, introdotto nel peggiore dei modi”, si lamenta il renziano Luigi Marattin. Per sedare la rabbia di Palazzo Madama, nel Pd esortano il Mef a varare un nuovo scostamento: così, i senatori avranno di che spartirsi. Ma un nuovo scostamento, con la trattativa sul Recovery fund in corso, appare un azzardo. Ci sarebbe il Mes, certo: ma il M5s da quell’orecchio non vuole sentirci, ancora. E dunque Conte tentenna, rinvia, traccheggia: meglio rimandare il voto a settembre. “Ma il tempo – dice Andrea Marcucci, capogruppo Pd al Senato – non è una variabile ininfluente. Non è solo questione di se attivare il Mes, che di sicuro andrà attivato. E’ piuttosto una questione di quando attivare il Mes”. A settembre potrebbe essere tardi.

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