(foto LaPresse)

Viaggio a Caracas alla scoperta della fascinazione grillina per Maduro

Claudio Giunta

“Sono peggio degli sceicchi: si sono presi il paese, non lo lasceranno più”. Ecco come funziona la dittatura chavista

Un paio d’anni fa sono stato in Venezuela e ho avuto l’emozione, rara per un europeo, di vedere una dittatura in atto. Certo, dittatura è vago. C’è la dittatura del consumismo, molto temuta da sinistra, c’è la dittatura del politicamente corretto, molto temuta dalla destra; ma che questi paragoni siano fuori luogo, che quella venezuelana sia una dittatura diversa, una bella dittatura novecentesca stricto sensu uno lo capisce già all’atterraggio, con tantissimi soldati nell’atrio dell’aeroporto, tutti molto sbrigativi, e appese ai muri le foto di Chávez accanto al ritratto di Simón Bolívar, di Chávez sotto la pioggia con la didascalia “La Patria siempre vencerá”, di Chávez che fissa il crocifisso e la didascalia “Cada día creo más en la idea de Cristo y en su ejemplo”, e la scritta #AquíNoSeHablaMalDeChávez appiccicata sulla vetrata della sala d’attesa, e tutte le altre icone chaviste seminate nei corridoi al posto dei paesaggi e delle pubblicità.

 

E anzi, il dubbio, il timore mi era venuto ancora prima di arrivare, ancora in volo sull’oceano, quando compilando la dichiarazione dei beni trasportati avevo scoperto che adesso il Venezuela si chiama “República bolivariana de Venezuela”, e avevo pensato che sono soprattutto i regimi totalitari quelli che cambiano il nome alle cose (il cachet che diventa “cialdino”, il “lei” che diventa “voi”) e addirittura alle nazioni: basta vedere quante volte hanno cambiato nome certi stati dell’Africa centrale governati da delinquenti. Poi, girando nelle strade di Caracas prima del coprifuoco, parlando con la gente, anche di ambienti diversi, tante conferme a quello che avevo visto e letto: la violenza, le bande armate dal regime, la povertà per tutti, anche per quelli che, provvisti di “Carnet de la Patria” chavista, ricevono ogni tanto un pacco con cibo e medicine; e anche lo scempio dell’antico centro storico coloniale, ora invaso da falansteri costruiti da turchi e bielorussi in cambio di petrolio. E tanta gente disperata che partiva per non tornare più, verso gli Stati Uniti, la Colombia: anche italiani di terza o quarta generazione.

 

Giorni dopo, nell’arcipelago di Los Roques non c’era quasi nessuno, perché in Venezuela i turisti non ci vanno più, e sulla piazza del villaggio abbiamo visto con pena bambini di sette-otto anni in divisa mentre rispondevano a domande demenziali sulla “rivoluzione bolivariana” fatte da un tizio corpulento anche lui in divisa. La sera ce ne ha parlato la titolare di uno dei pochi negozietti aperti, uno dei bambini che avevamo visto la mattina era suo figlio, aveva otto anni e da due, a scuola, era costretto a digerire questa “basura ideológica”. “Sono peggio degli sceicchi: si sono presi il paese, non lo lasceranno più. Gli adolescenti non hanno visto mai niente di diverso da Chávez e Maduro, pensano che questo sia il modo di fare politica, di vivere”. Questo, cioè le divise da balilla, le gesta di Simón Bolívar mandate a memoria e recitate di fronte al suo mural, sulla spiaggia di Gran Roque.

 

E il peggio, come accade, arrivava dalla radio e dalla televisione. Alla radio, la voce di Maduro interrompeva per minuti, per ore, le trasmissioni regolari per rivolgersi al popolo: era la “cadena obligatoria” che fino a qualche anno fa partiva una volta al mese, per qualche legge importante o visita di stato, e adesso c’era quasi ogni giorno. “Hoy también hay cadena”, commentavano rassegnati i venezuelani. In tv, invece, e chi vuole lo trova su YouTube, c’era “Con el mazo dando”, una specie di tribuna politica di quattro ore a una voce sola, quella del numero due del regime venezuelano Diosdado Cabello, ex militare, complessione fisica e garbo del lottatore, rapporti sospetti col narcotraffico. Bastava ascoltarlo per cinque minuti mentre in tuta in acetato Adidas aizzava la folla di un palasport contro i nemici del governo, seduto dietro a una scrivania coperta di busti in peltro di Chávez e Bolívar, crocifissi e immaginette della Madonna, e di traverso alla scrivania una bella clava nodosa, quella che dà il nome al programma, “Picchiando con la mazza” – bastavano cinque minuti per dimenticare la dittatura del consumismo e quella del politicamente corretto, e non sorridere più.

 

Tutto questo torna alla memoria perché ieri l’Abc ha scritto che il Movimento 5 stelle è stato finanziato dal governo di Maduro: tre milioni e mezzo in una valigetta attraverso il console venezuelano a Milano. E potrebbe essere vero, ma più probabilmente no, un po’ perché non bisogna fidarsi tanto dei nostalgici di Franco, un po’ perché il documento, a leggerlo, ha proprio l’aria di una pecionata. Ma si potrebbe obiettare, tra pecioni… E più seriamente si potrebbe ricordare la missione dei 5 Stelle nel marzo del 2017, il viaggio a Caracas di Di Stefano, Bertorotta e Petrocelli, i colloqui con Maduro (nonché con una comunità italiana, mi hanno riferito, allibita dall’allure chavista dei tre suddetti). Ma chissà.

 

Il documento è però interessante per il trittico di aggettivi con cui si definisce il Movimento: anticapitalista, rivoluzionario e izquierdista. Se ne è scherzato in rete, perché “anticapitalista” davvero no, non l’avvocato con la pochette e il santino di Padre Pio nel taschino; “rivoluzionario” men che meno, questa era solo gente che guadagnava poco o niente e voleva guadagnare di più; e izquierdista? Vecchia questione. Può il Movimento 5 stelle definirsi di sinistra? Ma certo che no, dice chi s’indigna per le posizioni sugli immigrati, sulle carceri, sulla giustizia, sullo ius soli, sui Decreti sicurezza. Ma certo che sì, dice chi si ricorda che la sinistra anche italiana, nel Novecento, anche nell’ultimo Novecento, non è stata solo partigiani solidarietà e riforme, ma anche foga ideologica, violenza, disprezzo per le regole della democrazia liberale. La simpatia per Chávez e Maduro non sorprende per niente, ognuno riconosce i suoi: i tre milioni e mezzo, se non glieli hanno dati, farebbero benissimo a darglieli.