Luca Cordero di Montezemolo (foto LaPresse)

Montezemolo propone un'alleanza trasversale per preparare il dopo

Salvatore Merlo

La burocrazia e il virus. E poi l’efficienza, le rivoluzioni necessarie e le tare da superare. Idee in libertà per non far crollare il paese

Roma. I suoi amici raccontano che fra le tante cose che nelle ultime settimane s’era prodigato a fare, come la donazione al policlinico Gemelli, era anche sul punto di acquistare trecentomila mascherine antivirus in Cina, per donarle alla Protezione civile, affinché fossero distribuite rapidamente negli ospedali d’Italia. E dicono che però, proprio quando era a un passo dal concludere l’acquisto, dall’Italia gli hanno spiegato che le mascherine sarebbero state fermate alla dogana, che insomma ci sono delle prassi, delle leggi da rispettare, delle procedure e dei protocolli, dunque tempi lunghi, tempi da castello di Kafka, incompatibili con l’urgenza e la rapidità del contagio. E tutta questa storia, a un certo punto, a Luca Cordero di Montezemolo, ex presidente della Ferrari e di Confindustria, oggi presidente di Italo treno, dev’essere sembrata un’amara metafora del suo paese, dei suoi organismi burocratici, con tutti i sapori pesanti e sgradevoli del potere pubblico che negli ultimi trent’anni anziché essersi alleggerito è diventato se possibile persino più involuto, pervasivo, avverso. Un reticolo opprimente di vincoli che ha avviluppato la capacità di crescita delle imprese, una cappa che è probabilmente la prima causa del declino italiano, dell’incapacità di svilupparsi e dunque di creare ricchezza e lavoro malgrado la tenacia imprenditoriale del paese, ben più dell’austerità europea o del debito pubblico. “E’ la prima cosa da fare. Adesso. A costo zero. Sburocratizzare. Liberare gli spiriti animali dell’imprenditoria italiana”, ha pensato Montezemolo. “Temo che nessuno se ne stia occupando. Ma la grande questione consiste nel fare poche chiare cose che cambino l’Italia ora, subito, immediatamente. In funzione di quando usciremo dall’emergenza sanitaria. Non è solo un’occasione storica. E’ una necessità per il futuro”. Sono alcuni giorni che, chiuso in casa come tutti, al telefono e su Skype, le elenca agli amici, l’altra sera anche a Barbara Palombelli, la conduttrice di Stasera Italia: “Non possiamo continuare a ripeterci che quando finirà questa emergenza verrà fuori l’entusiasmo degli italiani. Il miracolo economico non fu fatto a colpi di retorica. Questo è il momento in cui tutte le persone più responsabili del Parlamento dovrebbero lavorare insieme per affrontare la priorità: burocrazia, semplificazione, digitalizzazione. Ma adesso. Non domani. Bisogna essere pronti a ripartire veloci”. 

  

 

Da mercoledì l’intelaiatura industriale del paese si è fermata. A mezzanotte del 25 marzo ha chiuso la meccanica, dopo i negozi, i ristoranti, i bar, gli alberghi. Centomila imprese con quasi due milioni di lavoratori. Tutto fermo. Una bestia imponente, capace di esportare all’estero per 175 miliardi di euro e capace di fatturarne oltre 500, si è spenta. Ed è forse appena l’inizio. “Siamo in guerra. Basta vedere le nostre città, basta vedere il numero dei morti e dei contagiati”, dice Montezemolo. “E questo significa che una parte del paese deve essere totalmente concentrata sull’emergenza. Perché la vita delle persone viene prima di tutto. Ma un’altra parte del paese, una parte della classe dirigente, però dovrebbe pensare al dopo. E dovrebbe pensarci senza perdere tempo. Perché ci sono aziende che se non riaprono in tempi veloci, non riapriranno mai più. Allora, sì, bisogna chiudere le aziende che non garantiscono la sicurezza dei lavoratori. Perché la salute viene prima di ogni altra cosa. Però bisogna chiuderle per poco tempo. Mettendo in campo tutti gli strumenti necessari affinché possano mettersi in regola dal punto di vista della sicurezza. E riaprire. Perché altrimenti, se ci attardiamo, provocheremo il collasso della nostra economia. Daremo spazio alle aziende straniere per venire a occupare le quote di mercato che lasciamo libere, si prenderanno i clienti. Ci sono aziende che rischiano di fallire. E non sono le grandi multinazionali, quelle possono resistere. Si tratta delle piccole e medie imprese. Le aziende familiari che sono la forza del nostro paese. Sono l’indotto. Non la Pirelli, ma quelli che magari costruiscono le scatole che contengono le gomme Pirelli. Si mettano tutti in regola. Ma riaprano. Perché sennò chiudiamo il paese e mettiamo sul lastrico tante famiglie”.

 

E c’è poi la grande questione dell’occasione che va colta, anche questa prima che sia troppo tardi. L’opportunità cioè di guarire ed emendare l’Italia dalle sue tare storiche, quelle che lentamente ma inesorabilmente ne hanno compresso e strozzato la fantasia e l’energia. “Noi abbiamo adesso l’occasione di fare degli investimenti e degli interventi di tipo legislativo che ci consentano di rilanciarci una volta passata la tempesta. Ma sono cose che vanno fatte ora, non dopo. Sono cose che vanno fatte adesso, perché poi non le potremmo più fare. Bisognerebbe mettere in campo, parallelamente alla squadra che si occupa di gestire l’emergenza del contagio, anche una squadra di grandi competenze che pensi al futuro dell’Italia. Purtroppo non vedo nessuno che stia seriamente lavorando al dopo. Quando sento il responsabile della Protezione civile che dice che il virus è più veloce della burocrazia vengo preso dallo sconforto”. E allora sburocratizzazione, semplificazione delle regole amministrative, semplificazione fiscale, digitalizzazione “perché ci siamo accorti che la nostra rete internet ora che l’abbiamo sovraccaricata non regge”. Ma anche investimenti nella ricerca, nella sanità al sud “perché bisogna solo immaginare cosa sarebbe successo se il virus avesse investito il sud con la forza con la quale ha colpito la Lombardia”. E poi una metafora che rimanda alla Formula 1, la sua passione: “Trovo assurdo che nessuno stia ragionando su quello che bisogna fare per avere una macchina più efficiente e veloce appena ripartirà la gara. Qualcuno, non so chi, dovrebbe prendere le persone più responsabili nel mondo della politica e dell’impresa per essere pronti a ripartire in pole position”. Mario Draghi? Chissà. Forse qualcosa ai box si è già messo in moto.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.