Whatever it takes contro il Covid. Draghi rilancia

Stefano Cingolani

Il monito dell'ex governatore della Bce è un nuovo squillo di tromba per l'Italia e soprattutto per l’Ue, nel giorno in cui si riunisce il consiglio per decidere sul sostegno comune contro un nemico comune

Whatever it takes, ancora: contro il coronavirus bisogna fare tutto quel che è necessario e anche di più. Mario Draghi si ripete? No, rilancia. L’articolo pubblicato sul Financial Times è un nuovo squillo di tromba, in particolare per l’Unione europea, il giorno in cui si riunisce il consiglio diviso sulle scelte da compiere e su una questione chiave: il sostegno comune contro un nemico comune. Ma il monito di Draghi vale anche per l’Italia che deve decidere come far fronte all’emergenza. L’ex banchiere centrale dice chiaramente che combattiamo una guerra e in tutte le guerre i governi hanno risposto indebitandosi, senza limiti. Il suo stile è sobrio come al solito, ma frasi e concetti sono drammatici, scolpiti sulla pietra. Stiamo vivendo “una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”, scrive. La pandemia può generale una depressione lunga e profonda, peggio che negli anni ’30. E’ quel che bisogna assolutamente evitare. Come? Con un “cambio di mentalità”, rompendo indugi e tabù, reagendo con estrema velocità per essere efficaci.

  
​Ma leggiamo il passaggio cruciale: “La perdita di reddito subita dal settore privato, ed il debito raccolto per colmare la differenza, devono alla fine essere assorbiti, in tutto o in parte, dai bilanci degli stati. Livelli di debito pubblico molto più elevati diverranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati da cancellazione di debito privato”. Dunque, non si tratta solo di fornire liquidità, né di fare credito. E questo è forse il passaggio più intrigante che fa saltare le paratie costruite finora anche dall’Unione europea: “Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse divengono veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti. Né la regolazione né le regole sulle garanzie devono intralciare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci delle banche a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che le riceve ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”.

  
​Si tratta di nazionalizzare banche e mercati? Il Leviatano si leva dalle acque? Stiamo creando le premesse di una nuovo crisi finanziaria e dell’iperinflazione? Può darsi, ma primum vivere. Come sempre. E Draghi, anche per la sua formazione culturale, non lo dimentica. Un intervento di rottura come il suo è destinato ad avere un impatto politico, in particolare in Italia.
​Lasciamo sullo sfondo la possibilità della quale tanto si è parlato di un Draghi salvatore della patria come commissario straordinario o a capo di un governo di salute pubblica o con qualsiasi formula. L’occasione più immediata riguarda il secondo intervento del governo Conte che, come annunciato, dovrebbe essere di altri 25 miliardi di euro. Basteranno? Il buon senso dice di no. Lo stesso vale se si guarda a quel che hanno fatto altri paesi. Gli Stati Uniti e la Germania hanno messo in campo il 10% del proprio prodotto lordo mettendo insieme l’erogazione della spesa pubblica, i fondi di salvataggio come in Germania e le coperture statali. L’equivalente per l’Italia sarebbero 170 miliardi di euro. Secondo alcune stime i paesi più colpiti potrebbero arrivare fino a coprire il 20% del pil. Il ministro dell’economia Roberto Gualtieri nei giorni scorsi aveva parlato di garantire fino a 300 e passa miliardi di euro. Forse sarebbe bene a questo punto, anziché centellinare le spese, mettere mano a un intervento massiccio, organico, duraturo.

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