Barack Obama e, a sinistra, Jason Furman (White House Archives)

Contro il coronavirus ci vuole uno choc fiscale. Parla l'ex consulente di Obama

Mariarosaria Marchesano

Non è il momento di preoccuparsi della sostenibilità del deficit, dice Jason Furman, l'economista di Harvard che fu chiamato alla Casa Bianca per combattere la grande crisi finanziaria del 2008

Milano. Dovremmo essere preoccupati del fatto che stiamo per aumentare in modo massiccio un deficit già molto grande? “Non è il momento di preoccuparsi dei vincoli fiscali”, osserva Jason Furman, professore alla Harvard School of Government ed ex consulente economico di Barack Obama, in un’ampia analisi pubblicata in un report di Goldman Sachs sull'impatto economico del coronavirus. “Se sei preoccupato per la sostenibilità fiscale – avverte Furman – ricorda che hai bisogno del pil per riscuotere le tasse e pagare il debito. E se non avremo una grande risposta fiscale, non avremo molto pil”.

 

Quando nel 2013 è stato nominato da Obama a capo del National economic council della Casa Bianca, organismo formato da tre consiglieri istituito nel 1946, Furman aveva già contribuito in maniera determinante a concepire il maxi piano di stimolo economico del 2009 (conosciuto come American recovery and reinvestment act), ed era stato in precedenza anche consigliere di Bill Clinton. La sua storia e il suo pensiero economico si sono sviluppati di pari passo con le politiche che i governi americani hanno messo in atto per superare alcune grandi crisi. E la ripresa conosciuta dall’America negli ultimi anni è stata generata anche da queste politiche. Furman ammette che mai prima d’ora c’è stato un “arresto così improvviso, sincronizzato e globale di tanta attività economica” e ritiene che non ci siano sufficienti prove storiche di pandemie per valutare quanto velocemente potremo recuperare.

 

“In una crisi finanziaria possono essere necessari da cinque a dieci anni per ritornare al punto di partenza. In questo caso, la mia ipotesi migliore è che gli effetti di questa crisi saranno persistenti e che parte della perdita del prodotto interno lordo non venga mai ricompensata, portando a un livello di pil permanentemente più basso”. Naturalmente, il fattore più importante per capire come si evolverà la crescita è capire a che punto siamo sul controllo del virus. “Se stiamo ancora adottando misure che limitano l’attività globale interna, la crescita negativa potrebbe continuare fino al 2021. E se tutto questo si trasformasse in una crisi finanziaria oltre che sanitaria, la recessione sarebbe  prolungata”. Sarebbe, però, un errore, secondo Furman, paragonare questa crisi a quella seguita al crack di Lehman Brothers nel 2008. Ci sono almeno tre grandi differenze. La prima riguarda l’interruzione di intere filiere produttive, che non si era mai vista prima d’oggi, con conseguenze che si potranno valutare solo quando si capirà quante aziende falliranno e quante, invece, riapriranno.

 

La seconda differenza riguarda le banche, che, questa volta non sono parte del problema, ma una componente essenziale della sua soluzione. Oggi le banche si trovano in una condizione di maggiore solidità rispetto a 12 anni fa, ma privati e aziende hanno già difficoltà a rimborsare prestiti e mutui a causa del blocco. Perciò, sarebbe necessario, secondo Furman, avere una certa “tolleranza normativa” nei confronti delle banche in modo che possano continuare a erogare credito, ma allo stesso tempo dovrebbe essere impedito loro di pagare i dividendi in modo da liberare quanto capitale per chi ne ha più bisogno. La terza, e ultima, differenza con la grande crisi finanziaria del 2008 è la risposta politica. L’economista di Harvard è stato corresponsabile di quanto all’epoca fu messo in atto dal governo degli Stati Uniti e lo ricorda come un momento difficile, ma dice che quello attuale lo è anche di più perché non si sono mai viste “condizioni economiche, politiche e di mercato muoversi a questa velocità”. 

 

I tempi di reazione diventano così parte della risposta ed è per questo che l’azione tempestiva della Federal reserve è apprezzabile, anche se Furman auspica che la banca centrale americana lavori su piani di emergenza che prevedano un coordinamento con la politica fiscale. “I politici stanno facendo cose più grandi e  più velocemente rispetto al passato e in circostanze più difficili, spesso non potendo neanche interagire di persona”. Come valuta Furman il pacchetto di stimoli fiscali pari a 2 mila miliardi di euro varato dall’amministrazione Trump? “L’amministrazione è stata lenta nel comprendere l’enormità della situazione dal punto di vista economico, ma alla fine si è mossa e direi che la risposta è abbastanza buona. Ma potrebbe essere ancora insufficiente”. Cioè, 2.000 miliardi di dollari sono troppo pochi?

 

“Penso che il pacchetto abbia  le dimensioni giuste, per ora. Ma è molto difficile sapere esattamente di cosa avrà bisogno l’economia, quindi i responsabili politici devono essere pronti a fare molto adesso e anche di più in seguito”. Per evitare un “ritiro prematuro” dello stimolo economico, Furman pensa sia molto importante che il pacchetto fiscale venga integrato con “meccanismi automatici che possano prolungare l’assistenza se l’economia rimane in gravi condizioni”. Insomma, tutto quello di cui c’è bisogno.